Il trasferimento in Italia della residenza fiscale di un soggetto non residente, esercente un’impresa commerciale, è disciplinato nel nostro ordinamento dall’articolo 166-bis del DPR n. 917/86, (TUIR), introdotto dall’articolo 12 del D.Lgs. n. 147/15. Tale disciplina è volta a regolare il trattamento fiscale delle attività e delle passività appartenenti al soggetto non residente e trova applicazione in tutti i casi in cui il trasferimento avvenga in continuità giuridica sotto il profilo civilistico, posto che, nel caso in cui il trasferimento avvenga in regime di discontinuità giuridica, la valutazione di attività e passività deve seguire le regole ordinarie riguardanti le operazioni di costituzione di società (o al trasferimento di beni privati all’impresa, se a trasferirsi fosse un imprenditore individuale).

Secondo questa normativa, il soggetto non residente, esercente un’impresa commerciale, che intende trasferire la propria residenza fiscale in Italia, dovrà valorizzare le attività e le passività in base al corrispondente valore normale, determinato ai sensi dell’articolo 9 del DPR n. 917/86. Il valore normale, dunque, diviene il criterio di riferimento nella valutazione delle attività e passività trasferite e ciò a prescindere dal fatto che il soggetto che si trasferisce abbia o meno scontato nello Stato di provenienza un exit tax.

Di seguito, tutti gli elementi utili per approfondire il concetto di trasferimento della residenza in Italia da parte di un impresa esercente attività commerciale. Per fare questo andremo ad analizzare l’articolo di legge secondo quanto chiarito dall’Amministrazione finanziaria con la Risoluzione n. 69/E/2016 dell’Agenzia delle Entrate.

Trasferimento di residenza in Italia di attività commerciali

Con il termine trasferimento di residenza in Italia si indica tanto il trasferimento in Italia della sede legale, amministrativa, o statutaria di società o enti, ma anche il trasferimento della residenza civilistica della persona fisica esercente attività di impresa. In concreto, il trasferimento della residenza fiscale di una società in Italia, previo il trasferimento della propria sede, può avvenire, ad esempio, a seguito di operazioni straordinarie come la fusione, la scissione transfrontaliera, oppure con la messa in liquidazione e la successiva ricostituzione della società in Italia.

Sotto il profilo fiscale l’operazione di trasferimento della sede in Italia è regolato dall’art. 166-bis del TUIR. Questa disposizione regola le modalità di determinazione del valore delle attività e delle passività a seguito del trasferimento della sede in Italia.

Requisito soggettivo

Il requisito soggettivo previsto dall’articolo 166-bis del DPR n. 917/86 riguarda essenzialmente la corretta identificazione dei soggetti che esercitano imprese commerciali. Soltanto questi soggetti, infatti, rientrano nel campo di applicazione di questa disciplina. In particolare, quindi, sono tenuti ad osservare la disposizione in esame le persone fisiche non residenti esercenti attività di impresa (relativamente all’attività condotta) e le società e gli enti non residenti esercenti attività commerciale.

Come è facile intuire, l’elemento che assume rilevanza è lo svolgimento di un’impresa commerciale. Possono avvalersi di questa disposizione dell’articolo 166-bis del DPR n. 917/86 soltanto i soggetti che esercitano una delle attività commerciali disposte ai sensi dell’articolo 55 del DPR n. 917/86. Questo articolo del TUIR, elenca, infatti, tute le attività i cui redditi sono classificati come “redditi di impresa“. L’articolo 55, comma 3, del DPR n. 917/86 stabilisce che:

le disposizioni in materia di imposte sui redditi che fanno riferimento alle attività commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate nel presente articolo

Commercialità enti non residenti

Per quanto riguarda la verifica dell’attività commerciale svolta dai soggetti non residenti che intendono effettuare il trasferimento delle residenza fiscale in Italia, il legislatore adotta un diverso approccio. L’articolo 73, comma 1, lettera d) del DPR n. 917/86 distingue i soggetti tra società ed enti non residenti.

Per quanto riguarda gli enti non residenti, il comma 5, dell’articolo 73 del DPR n. 917/86, stabilisce un criterio apposito per identificare la natura del tipo di attività svolta, implicando che, almeno per tali soggetti la commercialità non è presupposta, ma deve essere oggetto di apposito accertamento.

Per le società non residenti, per converso, il legislatore non ha dettato alcun criterio in relazione all’accertamento della natura (commerciale o meno) dell’attività svolta.

Una parte della dottrina, ha sostenuto che la commercialità delle società di persone e di capitali regolate dal Codice civile  debba estendersi a tutti quei soggetti che sono assimilabili alle società di persone e di capitali indicate dal legislatore rispettivamente agli articoli 5 e 73, comma 1, lettere a), del DPR n. 917/86. In relazione all’articolo 166-bis del DPR n. 917/86, inoltre, per “soggetti che esercitano imprese commerciali” non si deve intendere solo i soggetti che svolgono un’attività commerciale effettiva ai sensi dell’articolo 55 del DPR n. 917/86, ma anche qualsiasi soggetto la cui commercialità sia presunta a causa della forma giuridica adottata, come accade per le società di capitali e gli enti commerciali di cui all’art. 73, lettere a) e b), del DPR n. 917/86 (e, quindi, anche le holding di partecipazioni).

Trasferimento di società

L’Agenzia delle Entrate affronta il tema in relazione al trasferimento di una società lussemburghese che, dalle informazioni disponibili, risulta mera detentrice di un immobile in Lituania e di alcune partecipazioni in società europee ed extraeuropee che, a loro volta, detengono proprietà immobiliari (siamo di fronte ad un impresa senza azienda o società di mero godimento). L’Amministrazione finanziaria, a tal proposito, ha ritenuto che: “il presupposto consistente nell’esercizio di un’impresa commerciale, cui è subordinato il regime in esame, deve intendersi riferito a tutti i soggetti titolari di reddito d’impresa secondo l’ordinamento italiano, a prescindere dall’attività economica concretamente svolta“.  E, in base a tale criterio, l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che per la società lussemburghese trovasse applicazione la disciplina prevista dall’articolo 166-bis del DPR n. 917/86.

L’Amministrazione finanziaria, quindi, in caso di soggetti passivi non residenti, ha adottato un approccio semplificato volto ad includere nel novero dei destinatari della disposizione anche soggetti che, sebbene non conducano un’attività commerciale effettiva (società di mero godimento), accedono alla disciplina in commento per la forma societaria rivestita. In ogni caso, l’accertamento dell’attività effettiva resta criterio inderogabile al fine di evitare che ci si possa trovare innanzi a casi in cui un soggetto non residente (non commerciale ai sensi dell’articolo 55 del DPR n. 917/86) possa ugualmente accedere alla disciplina dell’articolo 166-bis in ragione della mera veste societaria da questi adottata. Ai fini dell’articolo 166-bis del DPR n. 917/86, inoltre, l’accertamento dell’attività effettiva rimarrebbe criterio generale per gli enti e le persone fisiche non residenti.

L’approccio adottato dalle Entrate risulta, dunque, corretto se applicato al caso di società che abbiano una legge regolatrice sostanzialmente in linea con quella italiana. Non sembrerebbe esserlo invece in generale, posto che negli altri casi sarà necessario verificare l’attività concretamente svolta dal soggetto che si trasferisce in Italia.

Requisito oggettivo

Per quanto riguarda l’ambito di applicazione della disciplina l’Amministrazione finanziaria estende l’applicazione dell’articolo 166-bis del DPR n. 917/86 anche nel caso di operazioni straordinarie. Il caso sottoposto all’attenzione dell’Amministrazione finanziaria riguarda un’operazione di fusione per incorporazione di una società lussemburghese in una società italiana, la quale, beneficia del regime delle operazioni straordinarie intracomunitarie di cui all’articolo 178 e seguenti del DPR n. 917/86. L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto applicabile all’operazione le previsioni dell’articolo 166-bis del DPR n. 917/86, individuando nella perdita della residenza fiscale in Lussemburgo da parte della società incorporata e nel trasferimento degli attivi e passivi alla società residente incorporante gli elementi che consentono l’estensione della disciplina anche al caso di operazioni straordinarie.

Secondo l’Agenzia delle Entrate, la ratio della disposizione deve essere rinvenuta nella volontà di regolare in maniera omogenea i trasferimenti di residenza indipendentemente dall’operazione prescelta per attuarli e, dunque, non solo con riferimento ai trasferimenti di residenza diretti bensì anche alle operazioni straordinarie tramite le quali si realizza il medesimo risultato. Tutto questo nell’assunto che tale operazione avvenga evidentemente in continuità giuridica.

Se così fosse, la disciplina potrebbe trovare applicazione non solo alle operazioni straordinarie intracomunitarie regolate dagli articoli 178 e seguenti del DPR n. 917/86, ma anche a quelle che trovano la propria disciplina negli articoli 172 e seguenti del DPR n. 917/86. Tuttavia, per porre freno ad eventuali forme di arbitraggio concernenti lo spostamento di residenza dall’estero in Italia , ha individuato, tra l’altro, nella perdita della residenza fiscale estera e non nell’acquisto residenza fiscale in Italia l’elemento chiave per applicare la disciplina alle operazioni straordinarie.

Determinazione del valore normale

Il valore normale è stato preso a riferimento dal legislatore come criterio guida nel trasferimento di residenza in Italia dei soggetti che esercitano attività commerciali. Tale valore normale trova sicuramente applicazione con riferimento ad attività e passività che sono iscritte in bilancio. Tuttavia, non altrettanto si può affermare in relazione ad attività e passività che, essendo completamente ammortizzate, non trovano più esposizione nel predetto documento.

L’Amministrazione finanziaria sottolinea che il valore normale trova applicazione anche nel caso in cui il valore contabile sia ad esso inferiore (anche quando questo sia nullo). Il maggiore ammortamento che scaturisce dalla differenza tra valore normale e valore contabile è deducibile fiscalmente in base all’articolo 109, comma 4, lettera b), del DPR n. 917/86, secondo il quale la deduzione dei componenti negativi è ammessa anche quando, pur non essendo imputati a conto economico, sia prevista per legge.

Il contribuente potrà dedurre extracontabilmente i maggiori ammortamenti derivanti dall’applicazione del valore normale alle attività trasferite in Italia. Nel caso inverso (valore normale sia più basso del valore contabile), il contribuente deve considerare deducibile soltanto la quota di ammortamento calcolata sul valore normale delle attività trasferite e non l’intera quota imputata in bilancio.

Viene, infine, sottolineato che la deduzione del maggior ammortamento non può comunque prescindere dall’applicazione dei principi di inerenza e di effettivo sostenimento della spesa. Pertanto, saranno deducibili le quote di ammortamento dei beni trasferiti soltanto nel caso in cui il contribuente dimostri di averne sostenuto il costo d’acquisto nello Stato di provenienza. In questo contesto, la risoluzione in commento scioglie ogni dubbio, riconoscendo il valore normale non solo agli attivi e passivi esposti in bilancio, ma anche a tutti i beni che, per effetto dell’ammortamento, presentano un valore contabile nullo o comunque inferiore al valore normale.

Verifica dei requisiti di residenza

L’Amministrazione finanziaria chiarisce che ai fini dell’acquisizione della residenza in Italia occorre che siano verificati i requisiti previsti dall’articolo 73 del DPR n. 917/86. In particolare, si fa riferimento alla sussistenza del requisito “geografico“, consistente per gli enti nel trasferimento, alternativamente, della sede legale, sede dell’amministrazione o dell’oggetto principale in Italia; mentre per le persone fisiche nell’acquisto della residenza, del domicilio o dell’iscrizione anagrafica , occorre accertare anche la sussistenza del requisito “temporale“, ovvero che il requisito geografico sia mantenuto per la maggior parte del periodo d’imposta.

Pertanto, suddividendo il periodo d’imposta in due parti l’una di 183 e l’altra di 182 giorni, si avrebbero, nel caso del trasferimento di sede posta in essere dal contribuente, i seguenti casi:

  • Il soggetto non residente si trasferisce nella prima parte del periodo d’imposta e, conseguentemente, al termine del periodo d’imposta lo stesso acquista la residenza fiscale in Italia, avendo in Italia trascorso la maggior parte del periodo d’imposta;
  • Il soggetto non residente si trasferisce nella seconda parte del periodo d’imposta e, dunque, al termine del periodo d’imposta risulta ancora essere fiscalmente non residente in Italia, non avendo in Italia trascorso la maggior parte del periodo d’imposta. Il contribuente diverrà residente soltanto nel periodo d’imposta successivo.

La combinazione delle norme sulla residenza del Paese di provenienza e di quelle dettate dall’articolo 73 del DPR n. 917/86 potrebbe condurre a situazioni in cui il contribuente potrebbe essere considerato residente in entrambi gli Stati ovvero in nessuno di essi.

Criterio dello split year

Per ovviare a tale inconveniente, si potrebbe superare l’attuale requisito temporale della residenza, adottando il criterio dello “split year“, il quale consentirebbe di qualificare il contribuente come residente limitatamente ad una sola parte del periodo d’imposta, decorrente dalla data di trasferimento in Italia, continuando, per converso, a considerarlo non residente fino alla predetta data. In pratica, l’adozione di tale criterio consentirebbe di suddividere in due o più parti l’ordinario periodo d’imposta in funzione del trasferimento da o in Italia da parte del contribuente. Il contribuente (impresa o ente societario) potrebbe chiudere il periodo d’imposta in coincidenza con la data di trasferimento dallo Stato di provenienza, cosicché a decorrere dal giorno successivo alla data di trasferimento inizierebbe un nuovo periodo d’imposta rispetto al quale il contribuente sarebbe considerato a tutti gli effetti residente fiscalmente in Italia.

Nella Risoluzione n. 9/E/2006, inoltre, l’Amministrazione finanziaria, conscia della possibilità che il contribuente potesse risultare non residente in entrambi gli Stati coinvolti nel trasferimento, aveva cercato di superare tale criticità, indicando nel giorno di cancellazione della società dal registro delle imprese dello Stato di provenienza il dies a quo al fine del computo dei giorni per la verifica del requisito temporale. Ovviamente, tale soluzione, sebbene criticabile in quanto conferisce ad atti e fatti verificatisi in altri ordinamenti rilevanza ai fini domestici, sembra insoddisfacente ove a trasferirsi risulti essere un soggetto non tenuto, in virtù della normativa interna dello Stato di provenienza, a qualsivoglia forma di iscrizione in pubblici registri (si pensi al caso del trust).

Valorizzazione dei beni

Altro importante aspetto concerne la verifica dell’acquisto della residenza in Italia riguarda il momento di valorizzazione dei beni. Sebbene, infatti, la data di trasferimento della sede rappresenta un dato puntuale, quello riguardante l’acquisto della residenza attiene alla verifica dei requisiti in relazione al singolo periodo d’imposta. Questa discrepanza tra il momento dell’effettivo trasferimento e quello di acquisto della residenza, già illustrato precedentemente, comporta che i beni siano valutati al valore normale soltanto una volta che il contribuente abbia acquisito la residenza in Italia. Ciò potrebbe condurre nel caso in cui il contribuente si sia trasferito in Italia nella seconda metà del periodo d’imposta, imposizione sulle eventuali plusvalenze derivanti, ad esempio, dalla cessione di partecipazioni di controllo in imprese italiane, in quanto in detto periodo d’imposta il contribuente sarebbe considerato non residente ai fini delle imposte sui redditi.

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