L’abuso della professione consiste nell’esercizio di un’attività professionale, in assenza del titolo abilitativo richiesto dalla legge. L’esercizio di determinate professioni è subordinato al possesso dell’abilitazione professionale. Questa consiste in una mera autorizzazione a svolgere una determinata professione. Essa in genere si consegue dopo aver acquisito un titolo di studio, mediante la partecipazione ad un esame di stato. L’accesso a quest’ultimo può essere subordinato ad una serie di requisiti, come lo svolgimento di un tirocinio professionale. L’abuso della professione, nel nostro ordinamento, è punita come reato ai sensi dell’art. 348 c.p.. La norma prevede espressamente la sanzione della reclusione, oltre ad una pena pecuniaria.
Tale norma ha una duplice ratio: garantire il regolare svolgimento dell’attività professionale, consentendo l’accesso solo a soggetti specializzati e tutelare i cittadini privati.
La norma, inoltre, prevede una serie di sanzioni accessorie, che hanno proprio una funzione spiccatamente deterrente della commissione del reato.
Una delle ulteriori conseguenze è il risarcimento del danno. In tal senso, la giurisprudenza non solo riconosce il diritto al risarcimento al privato che è stato leso nei suoi diritti, ma anche all’Ordine professionale. Questo, infatti, può richiedere che gli sia risarcito il c.d. danno all’immagine, costituendosi parte civile nel procedimento penale.
Tuttavia, ci sono dei problemi di compatibilità con alcuni principi comunitari, quali la libertà di circolazione delle persone e di stabilimento. Si è infatti resa necessaria un’attività interpretativa, che la renda comunitariamente.
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Abuso della professione
L’esercizio di determinate professioni è subordinato al possesso dell’abilitazione professionale. Questa consiste in una mera autorizzazione a svolgere una determinata professione.
Essa in genere si consegue dopo aver acquisito un titolo di studio, mediante la partecipazione ad un esame di stato. L’accesso a quest’ultimo può essere subordinato ad una serie di requisiti, come lo svolgimento di un tirocinio professionale.
A seguito del superamento dell’esame di Stato, il soggetto abilitato può procedere all’iscrizione all’albo del proprio ordine professionale. Con ciò si intende un’associazione di categoria, che si occupa di disciplinare gli aspetti organizzativi dell’attività professionale, anche eventualmente gestendo una casa previdenziale, come accade per l’ordine degli avvocati.
Costituiscono professioni che presuppongono un’abilitazione professionale le professioni legate all’area sanitaria, come medico chirurgo, odontoiatra, psicologo e farmacista, comprese quelle delle lauree triennali, quali infermiere, ostetrico, fisioterapista, ecc. Tuttavia sono soggette ad abilitazione anche le professioni di avvocato, attuario, chimico, ingegnere, architetto, pianificatore, paesaggista, biologo, geologo, dottore agronomo e dottore forestale e assistente sociale.
Dunque, quando si parla di abuso della professione, si intende non ogni esercizio abusivo di un mestiere, ma solo quello che riguarda professioni per le quali occorre un particolare titolo abilitativo. L’esercizio abusivo è quindi posto in essere da coloro che, pur essendo tenuti a conseguire l’abilitazione, procedono ad esercitare l’attività in assenza di tale presupposto. Tale condotta può integrare reato, e conseguentemente è punita, anche, con la pena della reclusione. |
L’esercizio abusivo di una professione è reato procedibile d’ufficio. Con ciò si intende che è sufficiente una segnalazione all’autorità giudiziaria, non è necessaria una querela da parte della persona offesa dal reato.
Esercizio abusivo della professione: il reato
L’abuso della professione costituisce un reato ai sensi dell’art. 348 c.p.. Come evidenziato nel paragrafo precedente, tale reato è integrato laddove sia svolta una professione per la quale è necessario il titolo abilitativo.
La norma tutela, come bene giuridico, il normale esercizio della professione, dunque, che siano seguite le norme che regolano le professioni. La funzione principale della norma è quella di far esercitare determinate attività a soggetti dotati di adeguate competenze. In tal modo, si vuole garantire tutela al cittadino stesso, dunque la principale ratio dell’istituto è quella di consentire di soddisfare un interesse della collettività, oltre che delle categorie professionali.
E’ un reato che ha natura istantanea, ossia si consuma alla realizzazione di un atto tipico della professione. Non è necessario che sia un atto retribuito. Secondo un orientamento giurisprudenziale, inoltre, anche gli atti non esclusivamente di tipo professionale, che siano continuativi e organizzati, nonché remunerati, possono esser considerati esercizio della professione, in quanto tale comportare l’applicazione della sanzione penale.
Le sanzioni
La violazione dell’art. 348 c.p. per abuso della professione può comportare anche la sanzione della reclusione. Brevemente ti indicheremo quali sono le sanzioni in cui puoi incorrere in caso di esercizio abusivo.
In primo luogo, la norma prevede la sanzione della reclusione, per un minimo di sei mesi fino ad un massimo di tre anni. Inoltre, è altresì prevista una pena pecuniaria, ossia la multa fino a cinquantamila euro. A tali pene principali, si aggiungono poi una serie di pene accessorie.
Il legislatore ha disposto che a seguito di condanna per esercizio abusivo della professione, è possibile procedere a:
- pubblicazione della sentenza;
- confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato;
- interdizione da uno a tre anni dalla professione o attività esercitata, laddove colui che si è reso autore della commissione del reato, eserciti una professione o attività. E’ necessaria dunque la trasmissione della sentenza al competente Ordine o albo, affinché questo provveda all’applicazione della sanzione disciplinare.
Tali ulteriori previsioni assolvono ad una funzione deterrente e preventiva, nonché la stessa reiterazione del reato. In tal modo, infatti, si previene che altri siano indotti in errore dal comportamento simulatorio dell’agente. La generalità dei consociati è resa edotta della commissione del reato, e il soggetto, responsabile, è privato della facoltà di esercitare lecitamente altre professioni o attività.
Istigazione all’abuso del reato
Sul punto, invero, il legislatore ha previsto una sanzione ancora più grave nel caso in cui il soggetto istighi altri all’abuso della professione. Infatti, la normativa stabilisce che si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni e della multa da 15mila a 75mila euro nei confronti del professionista che:
- ha determinato altri a commettere il reato di esercizio abusivo della professione;
- ha diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo.
Il risarcimento del danno
Una delle conseguenze dell’abuso della professione è il risarcimento del danno. Infatti, il falso medico o il falso avvocato, secondo quanto disposto dall’interprete, è tenuto ad ristorare la lesione e le relative conseguenze prodotte dall’attività abusivamente svolta.
In particolare, la giurisprudenza ha anche riconosciuto una specifica categoria di danno, ossia il danno all’immagine. Tale voce del danno può essere esclusivamente richiesta dall’Ordine professionale, che può, quindi, anche costituirsi parte civile nel procedimento penale. Mentre per quanto riguarda il privato cittadino, egli potrà richiedere il danno commisurato alle conseguenze della lesione patita al proprio diritto, che sia di difesa, salute, ecc.
Quindi, può costituirsi parte civile, purché sia stato effettivamente leso e abbia subito le relative conseguenze della lesione.
Inoltre, il cliente o paziente non sarà tenuto a retribuire il falso professionista, il quale perde, ovviamente, ogni diritto ad un corrispettivo. Il legislatore, condizionando l’esercizio della professione all’abilitazione, ha escluso che la prestazione eseguita da un soggetto non dotato del requisito, non ha diritto al pagamento della retribuzione.
In pratica, ciò che il finto professionista ha ricevuto a titolo di compenso deve essere restituito.
Abuso della professione e libertà di circolazione
L’abuso della professione e la relativa disciplina di cui all’art. 348 c.p., pongono alcuni problemi di compatibilità con i principi comunitari. Infatti, la norma sembra comportare una limitazione della c.d. libertà di circolazione dei lavoratori. Ciò indubbiamente ha posto all’interprete l’esigenza di individuare un’interpretazione comunitariamente compatibile.
Inoltre, ai cittadini comunitari è, altresì riconosciuta la libertà di stabilimento, ossia di esercitare la propria attività liberamente all’interno di uno degli Stati membri, diverso da quello dove si è conseguito il titolo o l’abilitazione, nonché il diploma per svolgere la predetta attività professionale.
A tal proposito è, infatti, riconosciuto a livello comunitario che l’autorità competente ad organizzare e disciplinare l’attività professionale, non può rifiutare ad un cittadino l’accesso alla professione, in quanto non è in possesso dei relativi requisiti richiesti dallo Stato ospitante.
Dunque, rispetto alla disciplina dell’abuso della professione è evidente un’esigenza di interpretazione conforme.
A tal proposito è intervenuta la Corte di Cassazione, rispetto all’attività professionale dell’odontoiatra, ove questi abbia acquisito i relativi requisiti e il diploma rilasciato da uno Stato dell’Unione. A tal proposito ha sostenuto la Corte che l’esercizio dell’attività in Italia non costituisce abuso della professione. Tuttavia, l’art. 348 c.p. trova comunque applicazione ove l’interessato non abbia presentato domanda al Ministero della sanità.
E’ altresì necessario che il Ministero abbia accertato la regolarità dell’istanza e della relativa documentazione, nonché abbia trasmesso la stessa all’ordine professionale competente per l’iscrizione (Cass. pen., Sez. VI, n. 47533/2013).