Capire se il recesso è nullo cambia tutto: reintegra, arretrati e (spesso) implicazioni fiscali da gestire subito.
Il licenziamento nullo è un recesso “radicalmente” invalido, perché viola divieti di legge o si fonda su motivi discriminatori/ritorsivi o su vizi che l’ordinamento considera intollerabili.
Quando il giudice accerta la nullità, la conseguenza tipica è la reintegrazione e il recupero delle retribuzioni arretrate, con effetti anche su contributi e tassazione delle somme riconosciute.
Si tratta di una delle situazioni più delicate che possono verificarsi nell’ambito lavorativo, specialmente per chi si trova in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il sistema giuridico prevede forti tutele per proteggere i lavoratori da licenziamenti ingiustificati, soprattutto quando questi violano norme imperative di legge, presentano motivi discriminatori o non rispettano specifici periodi di tutela come la maternità o la malattia.
Indice degli argomenti
Cos’è il licenziamento nullo
Il licenziamento1 è l’atto unilaterale con il quale il datore di lavoro pone fine al rapporto di lavoro. Questo atto, per essere valido, deve rispettare una serie di condizioni previste dalla legge. In assenza di tali condizioni, il licenziamento può essere dichiarato nullo.
Il dipendente può essere licenziato solo nel momento in cui ci sia una giusta causa o un motivo piuttosto importante. Se non si dovessero presentare nessuna di queste situazioni, allora l’atto commesso viene considerato un licenziamento illegittimo, il quale può sfociare e trasformarsi in licenziamento nullo ed il datore di lavoro dovrà reintegrare il dipendente oltre a pagare le mensilità mancate.
Definizione
La nullità ricorre tipicamente quando il recesso avviene in periodi protetti o per ragioni vietate, come discriminazione o ritorsione. In pratica, è utile ragionare per “categorie di rischio”, così da raccogliere subito prove coerenti con la causa di nullità che si intende far valere.
Il licenziamento è considerato nullo quando:
- Viola un divieto legale: Ciò accade, ad esempio, quando viene disposto durante periodi nei quali il licenziamento è proibito dalla legge, come nel caso di maternità, paternità o malattia, oppure durante il congedo matrimoniale. Inoltre, anche in caso di malattia non ancora terminata entro il periodo di comporto previsto dal contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL);
- Contravviene a norme imperative: Qualsiasi licenziamento contrario a norme che tutelano l’interesse pubblico o norme imperative di legge è da considerarsi nullo;
- È discriminatorio o di ritorsione: Quando il licenziamento è disposto per motivi discriminatori, come genere, età, orientamento sessuale, religione, disabilità o affiliazione sindacale, o come forma di ritorsione per l’esercizio di un diritto da parte del lavoratore. Un esempio classico è il licenziamento di una lavoratrice per aver annunciato una gravidanza. Ad esempio, si parla di licenziamento ritorsivo in caso di richiesta di un permesso per assistere un familiare malato o per aver denunciato condizioni di lavoro irregolari;
- Licenziamento in forma orale: Un licenziamento effettuato verbalmente e non supportato da una comunicazione scritta è anch’esso nullo, in quanto privo di prova formale.
Nel momento in cui pensate che non ci sia una ragione valida a sostegno della lettera di licenziamento ricevuta, si può decidere di passare ad un’azione legale che vedrà la presenza di un giudice e sarà lui a stabilire l’illegittimità del licenziamento, andando persino ad annullarlo.
Licenziamento discriminatorio
Rientrano in questa categoria tutti i licenziamenti motivati da fattori di discriminazione espressamente vietati. Parliamo di licenziamenti basati su sesso, età, orientamento sessuale, religione, convinzioni personali, handicap, origine etnica o appartenenza sindacale. La discriminazione può essere diretta, quando il fattore protetto costituisce il motivo evidente del recesso, oppure indiretta, quando una prassi apparentemente neutra produce effetti svantaggiosi per una categoria protetta.
Un caso emblematico riguarda i lavoratori con disabilità. La Cassazione con la sentenza n. 14307 del 22 maggio 2024 ha stabilito che licenziare un dipendente disabile senza aver adottato i cosiddetti “accomodamenti ragionevoli” costituisce discriminazione diretta. Gli accomodamenti ragionevoli sono quegli adattamenti organizzativi che il datore deve implementare per consentire al lavoratore disabile di svolgere le proprie mansioni: modifiche degli orari, riorganizzazione delle postazioni, dotazione di strumenti specifici.
La stessa Corte, con ordinanza n. 460 del 9 gennaio 2025, ha ribadito che il licenziamento discriminatorio comporta sempre l’applicazione della tutela reintegratoria piena, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda.
Licenziamento in violazione di divieti specifici
Il legislatore ha previsto periodi durante i quali il licenziamento è espressamente vietato. Il più noto riguarda la maternità e la paternità: dal momento della richiesta di pubblicazioni di matrimonio fino a un anno dopo, ogni licenziamento della lavoratrice è presunto nullo. Allo stesso modo, il licenziamento durante la gravidanza e fino al compimento di un anno di età del bambino è vietato, salvo casi eccezionali di giusta causa o cessazione dell’attività aziendale.
Rientrano in questa categoria anche i licenziamenti intimati durante la malattia, prima del superamento del periodo di comporto previsto dal contratto collettivo. La Cassazione con sentenza n. 11731 del 2024 ha chiarito che applicare ai lavoratori disabili lo stesso periodo di comporto previsto per gli altri dipendenti costituisce discriminazione indiretta, configurando quindi la nullità del licenziamento.
Licenziamento ritorsivo
Si parla di licenziamento ritorsivo quando il datore punisce il lavoratore per aver esercitato un diritto legittimo. Classici esempi: licenziare chi ha denunciato irregolarità in azienda, chi ha richiesto il congedo parentale, chi ha aderito a uno sciopero legittimo, chi ha testimoniato in un procedimento contro l’azienda.
La Cassazione con ordinanza n. 17267 del 25 giugno 2024 ha precisato le differenze tra licenziamento ritorsivo e discriminatorio. Nel licenziamento ritorsivo il lavoratore deve dimostrare che il motivo illecito è stato esclusivo e determinante per il recesso. Nel licenziamento discriminatorio, invece, basta fornire elementi che rendono plausibile l’esistenza della discriminazione, gravando sul datore l’onere di provare l’assenza di intenti discriminatori.
Differenze tra licenziamento nullo, illegittimo e inefficace
Comprendere le distinzioni tra queste categorie è fondamentale per capire quali tutele ti spettano. Le tre fattispecie si differenziano sia per le cause che le determinano sia per le conseguenze giuridiche.
| Tipologia | Cause principali | Tutela principale | Indennità minima | Dimensione azienda rilevante |
|---|---|---|---|---|
| Licenziamento nullo | Discriminazione, maternità, violazione norme imperative, forma orale, ritorsione | Reintegrazione obbligatoria + retribuzioni arretrate + contributi | Minimo 5 mensilità (sempre) | No, si applica a tutti |
| Licenziamento illegittimo | Assenza giusta causa o giustificato motivo, vizi procedurali, fatto insussistente | Reintegrazione attenuata (solo casi specifici) o indennità | 2-24 mensilità (tutele crescenti) o 12-24 mensilità (art. 18) | Sì, rilevante per tutele |
| Licenziamento inefficace | Mancanza forma scritta, mancata comunicazione motivi | Reintegrazione (trattato come nullo per forma) | Variabile secondo regime | No per vizio di forma |
Il licenziamento nullo è quello che viola le norme più importanti dell’ordinamento. Non occorre che il lavoratore dimostri l’assenza di giusta causa: la violazione della norma imperativa rende nullo l’atto a prescindere. La tutela reintegratoria è sempre piena e si applica indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda e dalla data di assunzione.
Il licenziamento illegittimo include tutte le altre forme di licenziamento che non rispettano le regole di giusta causa o giustificato motivo. Può essere intimato per motivi economici inesistenti, per addebiti disciplinari non provati o senza rispettare le procedure previste dal contratto collettivo. In questi casi le tutele variano: si va dalla semplice indennità economica (regime ordinario per lavoratori assunti dopo il 2015) alla reintegrazione attenuata nei casi più gravi come l’insussistenza del fatto materiale contestato.
Il licenziamento inefficace riguarda principalmente i vizi di forma. Il caso più frequente è il licenziamento orale, ma rientrano qui anche i licenziamenti comunicati per iscritto ma senza l’indicazione dei motivi. L’inefficacia significa che l’atto non produce effetti: il rapporto di lavoro continua a esistere come se il licenziamento non fosse mai stato intimato.
La distinzione più importante riguarda l’onere della prova. Nel licenziamento nullo per discriminazione, una volta che il lavoratore fornisce elementi che rendono plausibile la discriminazione, spetta al datore dimostrare che i motivi erano legittimi. Negli altri licenziamenti illegittimi è il lavoratore a dover provare che mancava la giusta causa.
Cosa fare operativamente
Se ritieni che il tuo licenziamento sia nullo, è importante agire tempestivamente per far valere i tuoi diritti. Ecco cosa fare:
1. Impugnare il licenziamento
Il lavoratore ha 60 giorni di tempo dalla ricezione della comunicazione di licenziamento per impugnare l’atto. Questo deve essere fatto inviando una lettera formale al datore di lavoro, nella quale si contesta il licenziamento e si espongono le ragioni per le quali si ritiene che il licenziamento sia nullo o ingiustificato. La lettera dovrebbe includere dettagli specifici sulle circostanze del licenziamento, come ad esempio la data dell’evento, eventuali prove di discriminazione o ritorsione, e il riferimento a eventuali leggi violate dal datore di lavoro. È fortemente consigliato richiedere assistenza da un avvocato esperto in diritto del lavoro per redigere una contestazione adeguata, così da garantire che tutte le argomentazioni pertinenti siano presentate e che i propri diritti siano pienamente tutelati.
2. Ricorso giudiziale
Una volta impugnato il licenziamento, il lavoratore ha 180 giorni per presentare un ricorso presso il Tribunale del Lavoro. Durante questo periodo, è altamente consigliato raccogliere tutte le prove disponibili per supportare la propria posizione, come eventuali testimonianze di colleghi o documentazione aziendale rilevante. Il giudice valuterà la legittimità del licenziamento, prendendo in considerazione ogni elemento presentato e, nel caso in cui sia dichiarato nullo, potrà disporre la reintegra del lavoratore e il pagamento delle retribuzioni arretrate. Inoltre, il giudice potrebbe anche ordinare il pagamento dei contributi previdenziali non versati e imporre un risarcimento aggiuntivo in caso di particolari danni subiti dal lavoratore a causa del licenziamento.
3. Reintegrazione e risarcimento
Se il giudice stabilisce che il licenziamento è nullo, il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore nel suo posto e a pagare tutte le retribuzioni non percepite dal momento del licenziamento fino alla data della reintegrazione. Inoltre, saranno a carico del datore anche i contributi previdenziali e assistenziali non versati.
Il giudice può altresì disporre che il datore di lavoro risarcisca eventuali danni morali subiti dal lavoratore, soprattutto nel caso di licenziamenti discriminatori o effettuati con dolo evidente. Oltre alla reintegrazione e ai contributi, il datore è tenuto a pagare anche un’indennità per il disagio subito, che può variare in base alle specifiche circostanze del caso, come il tempo trascorso fuori dal lavoro e l’impatto economico sulla vita del dipendente. Questa somma aggiuntiva si configura come un riconoscimento dei danni sofferti dal lavoratore a causa della perdita ingiusta del suo impiego e mira a ristabilire una condizione di equità.
Tabella di riepilogo
| Attività | Tempi per agire |
|---|---|
| Contestare il licenziamento | Entro 60 giorni |
| Ricorso al Tribunale del Lavoro | Entro 180 giorni |
| Reintegrazione e risarcimento | Disposto dal giudice |
Applicazione per le piccole aziende
Le regole sul licenziamento nullo si applicano sia alle grandi aziende che alle piccole imprese (con meno di 15 dipendenti). In entrambi i casi, le conseguenze per il datore di lavoro sono le stesse, ossia la reintegrazione del lavoratore e il risarcimento economico. Questo significa che, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda, il datore di lavoro deve garantire che il lavoratore possa riprendere la sua posizione con tutte le condizioni precedenti inalterate, compreso il trattamento economico e normativo.
Inoltre, il datore di lavoro è obbligato a risarcire il lavoratore per tutte le retribuzioni non percepite durante il periodo di licenziamento, compresi i contributi previdenziali e assistenziali che sarebbero stati versati se il licenziamento non fosse mai avvenuto. In aggiunta, il lavoratore ha diritto a una compensazione per il disagio subito, soprattutto nei casi in cui il licenziamento abbia avuto un impatto negativo sulla sua stabilità economica e sulla sua carriera. Questo approccio mira a garantire che il lavoratore non subisca alcuna conseguenza finanziaria o professionale a causa di un licenziamento che è stato dichiarato nullo, e che la sua situazione lavorativa sia pienamente ristabilita.
Tutele e risarcimenti previsti per i lavoratori
In caso di licenziamento nullo, la legge italiana prevede importanti tutele per i lavoratori. Questi diritti sono regolati da norme quali lo Statuto dei Lavoratori e il Decreto Dignità, che hanno apportato modifiche significative in tema di tutele crescenti e risarcimenti per i lavoratori licenziati. Queste leggi garantiscono che i lavoratori siano protetti da qualsiasi abuso da parte dei datori di lavoro e che abbiano accesso a una giustizia rapida ed efficace.
L’obiettivo è quello di preservare la dignità del lavoratore e assicurare che ogni atto di licenziamento rispetti i principi di equità e non discriminazione. Inoltre, lo Statuto dei Lavoratori, combinato con il Decreto Dignità, introduce misure specifiche per favorire la stabilità occupazionale, riducendo l’utilizzo improprio dei contratti a termine e promuovendo il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento ingiusto. Queste normative, insieme, rappresentano un baluardo di protezione per i diritti dei lavoratori, assicurando che ogni caso di licenziamento sia accuratamente valutato e che vengano garantite le opportune compensazioni economiche in caso di violazione.
Reintegrazione sul posto di lavoro
Il principale rimedio previsto in caso di licenziamento nullo è la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Il datore di lavoro deve non solo ripristinare il rapporto di lavoro, ma anche versare un’indennità pari alle retribuzioni maturate dal momento del licenziamento. Oltre a questo, il datore di lavoro è tenuto a garantire che tutte le condizioni contrattuali precedenti siano mantenute, incluse eventuali promozioni o scatti di anzianità che il lavoratore avrebbe maturato se il licenziamento non fosse avvenuto.
Il datore di lavoro dovrà inoltre corrispondere una somma aggiuntiva per coprire eventuali danni morali e psicologici subiti dal lavoratore a causa della perdita ingiusta del posto di lavoro. Questa indennità ha l’obiettivo di compensare il disagio e le difficoltà affrontate dal lavoratore nel periodo di inattività, incluso l’impatto sulla sua vita personale e professionale. L’azienda, infine, sarà anche tenuta a sostenere tutte le spese legali sostenute dal lavoratore per difendersi, contribuendo così a ripristinare una situazione di equità e giustizia.
Indennità risarcitoria
Il lavoratore ha diritto a una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione percepita. Questa indennità copre il periodo tra il licenziamento e l’effettiva reintegra, deducendo eventuali somme percepite da altre attività lavorative (aliunde perceptum). L’importo minimo per il risarcimento è pari a 5 mensilità dell’ultima retribuzione. Oltre a questo, il risarcimento può essere incrementato nel caso in cui il lavoratore abbia subito danni particolarmente gravi, come la perdita di opportunità lavorative future o un deterioramento delle condizioni di vita. In alcuni casi, il giudice può anche prevedere una maggiorazione per il danno morale subito, soprattutto quando il licenziamento ha comportato un grave disagio emotivo o ha compromesso la reputazione professionale del lavoratore. L’importo del risarcimento può quindi variare considerevolmente in base alle circostanze del caso specifico, con l’obiettivo di ristabilire una situazione di equità per il lavoratore.
Aspetti fiscali del licenziamento nullo: tassazione e contributi
Le somme che ricevi a seguito della dichiarazione di nullità del licenziamento hanno un trattamento fiscale specifico che devi conoscere per evitare sorprese. La distinzione fondamentale riguarda la natura delle somme: retribuzioni arretrate, indennità risarcitoria o indennità sostitutiva della reintegrazione.
Retribuzioni arretrate: tassazione ordinaria
Le retribuzioni arretrate che il datore è condannato a pagarti per il periodo tra il licenziamento e la reintegrazione costituiscono reddito da lavoro dipendente ordinario. Tecnicamente, queste somme competono agli anni in cui le avresti dovute percepire. Tuttavia, essendo liquidate in un’unica soluzione (o in poche rate), possono comportare un carico fiscale particolarmente pesante se incassate tutte nello stesso anno fiscale. Immagina di ricevere € 30.000 di arretrati in un anno in cui già percepisci il tuo stipendio ordinario: finiresti nelle fasce IRPEF più alte.
Per questo motivo, l’art. 17 del TUIR prevede l’applicazione della tassazione separata ai sensi del co. 1, let. b). Il sostituto d’imposta (il datore di lavoro) calcola l’imposta applicando l‘aliquota media di tassazione degli ultimi due anni del rapporto. In pratica, divide il reddito imponibile degli ultimi due anni per due, determina l’aliquota media applicata, e la applica alle retribuzioni arretrate. Questo meccanismo evita che le somme arretrate, concentrate in un anno, ti facciano saltare negli scaglioni IRPEF più alti.
La tassazione separata è facoltativa: puoi scegliere se avvalerti di questo regime o lasciare che le somme siano tassate ordinariamente come reddito dell’anno di percezione. Devi valutare caso per caso cosa conviene, considerando la tua situazione reddituale complessiva dell’anno. Nella mia esperienza, quando gli arretrati superano € 15.000-20.000 e il rapporto è durato almeno due anni, la tassazione separata risulta quasi sempre più conveniente.
Contributi previdenziali sulle retribuzioni arretrate
Sulle retribuzioni arretrate il datore deve versare anche i contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo, come disposto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Questo significa che la tua posizione contributiva INPS viene ricostruita come se non fossi mai stato licenziato.
I contributi si calcolano sulle retribuzioni lorde arretrate, applicando le aliquote contributive vigenti nei singoli periodi di competenza. Il datore versa la quota a suo carico (circa 23,81% per il lavoro dipendente privato) e trattiene dalla tua retribuzione la quota a tuo carico (circa 9,19%). Complessivamente, l’onere contributivo è di circa il 33% delle retribuzioni lorde.
Questo versamento contributivo è molto importante perché ti garantisce la copertura pensionistica per il periodo di estromissione. Senza questo versamento, avresti un “buco” contributivo che ridurrebbe l’importo della tua pensione futura. Il versamento retroattivo ripristina integralmente la tua posizione previdenziale.
Indennità sostitutiva della reintegrazione: regime speciale
Se rinunci alla reintegrazione e opti per l’indennità sostitutiva di 15 mensilità, questa somma ha un trattamento fiscale diverso. L’indennità sostitutiva non costituisce reddito da lavoro dipendente ordinario, ma rientra tra i redditi da “cessazione del rapporto di lavoro” previsti dall’art. 17, co. 1, lett. a) del TUIR.
Su questa indennità si applica la tassazione separata obbligatoria. Il calcolo è lo stesso descritto sopra: aliquota media del reddito degli ultimi due anni applicata all’importo dell’indennità. Non puoi scegliere la tassazione ordinaria. L’indennità sostitutiva è soggetta a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, quindi il datore versa direttamente l’imposta e tu ricevi il netto.
Esempio pratico: ultima retribuzione mensile lorda € 2.000, indennità sostitutiva di 15 mensilità = € 30.000 lordi. Supponiamo che l’aliquota media dei tuoi ultimi due anni fosse del 28%. Imposta dovuta: € 8.400. Netto percepito: € 21.600.
Quando assistiamo un cliente nella scelta tra reintegrazione e indennità sostitutiva, calcolo sempre anche l’impatto fiscale netto. L’indennità sostitutiva è tassata in modo agevolato rispetto alle retribuzioni ordinarie, ma devi considerare che rinunci al posto di lavoro. Se hai già un’altra occupazione o non vuoi tornare in azienda, l’indennità può essere conveniente.
Contributi sull’indennità sostitutiva
L’indennità sostitutiva della reintegrazione non è soggetta a contribuzione previdenziale perché non costituisce retribuzione da lavoro dipendente, ma un risarcimento forfettario della perdita del posto. Questo significa che sulla somma di 15 mensilità non vengono calcolati né versati contributi INPS.
Dal punto di vista del datore, questo rappresenta un risparmio contributivo significativo: su € 30.000 di indennità evita di versare circa € 10.000 di contributi. Per te lavoratore, invece, significa che quei 15 mesi non producono contribuzione utile ai fini pensionistici. È un elemento da considerare nella scelta.
Deducibilità per il datore di lavoro
Dal lato datore di lavoro, tutte le somme pagate a seguito di sentenza di nullità del licenziamento sono integralmente deducibili dal reddito d’impresa come costi del personale. Le retribuzioni arretrate e i relativi contributi sono deducibili nell’esercizio di competenza (quello in cui viene emessa la sentenza o quello di pagamento, a seconda dei criteri contabili adottati).
Anche l’indennità sostitutiva di 15 mensilità è deducibile, configurandosi come onere necessario derivante da obbligazione di legge. Analogamente, eventuali spese legali sostenute per il contenzioso sono deducibili come costi per servizi.
Aspetti IVA e ritenute
Le somme liquidate al lavoratore non sono soggette a IVA, trattandosi di rapporto di lavoro subordinato. Il datore deve operare le ritenute fiscali alla fonte sulle retribuzioni arretrate e sull’indennità sostitutiva, versandole all’Erario tramite modello F24.
Sul piano operativo, il datore rilascia al lavoratore la Certificazione Unica (CU) entro il 16 marzo dell’anno successivo a quello di pagamento, indicando distintamente le retribuzioni ordinarie, quelle arretrate e l’eventuale indennità sostitutiva. Questa certificazione ti serve per la dichiarazione dei redditi.
Quando conviene la tassazione separata
La tassazione separata conviene quando l’anno di percezione delle somme arretrate è un anno in cui hai un reddito più elevato rispetto alla media dei due anni precedenti. Esempio concreto: negli anni 2023-2024 avevi un reddito medio di € 25.000 annui (aliquota media circa 25%). Nel 2025 hai trovato un nuovo lavoro con retribuzione di € 35.000 e nello stesso anno ricevi € 24.000 di arretrati dal licenziamento nullo.
Con tassazione ordinaria: sommeresti i € 24.000 di arretrati ai € 35.000 del nuovo lavoro, arrivando a un imponibile complessivo di € 59.000, che ti porta nell’aliquota marginale del 38% (scaglione sopra i 50.000 euro). Imposta aggiuntiva sugli arretrati: circa € 9.100.
Con tassazione separata: applichi l’aliquota media degli anni 2023-2024 (25%) ai € 24.000 di arretrati. Imposta: € 6.000. Risparmio fiscale: € 3.100.
La scelta va fatta valutando attentamente la propria situazione reddituale. Se non hai certezza sul regime più conveniente, puoi sempre rivolgerti al tuo commercialista o CAF per un calcolo preventivo.
Domande frequenti
Il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore e a pagare tutte le retribuzioni arretrate dal momento del licenziamento fino alla reintegrazione, oltre ai contributi previdenziali non versati.
Il licenziamento deve essere impugnato entro 60 giorni dalla sua comunicazione. Successivamente, il lavoratore ha 180 giorni per presentare il ricorso al Tribunale del Lavoro.
I tempi variano molto a seconda del Tribunale e della complessità del caso. In media, per ottenere una sentenza di primo grado occorrono dai 12 ai 24 mesi dalla presentazione del ricorso. I Tribunali del Lavoro applicano il rito abbreviato che prevede tempi teoricamente più rapidi, ma nella pratica i carichi di lavoro allungano le attese.
Note
1 – Sulla base di quanto disposto dalla L. n. 604 del 15 luglio 1996, dello Statuto dei lavoratori e della L. n. 108 del 11 maggio 1990, il datore di lavoro può licenziare un dipendente soltanto per giusta causa, per giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) oppure un licenziamento collettivo.
Fonti
- Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori), art. 18
- Legge 15 luglio 1966, n. 604
- Legge 28 giugno 2012, n. 92
- D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23
- D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216
- D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198
- D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151