Il principio della libertà di stabilimento delle società in ambito UE. Le difficoltà di attuazione nella Comunità Europea e l’armonizzazione della disciplina sull’exit tax.
Uno dei punti più qualificanti dell’Unione Europea e degli ideali che la ispirano è costituito dalla c.d. libertà di stabilimento, la quale viene solitamente intesa come il diritto di ciascun cittadino facente parte dell’Unione di fissare la propria residenza in uno dei paesi europei.
Il principio della libertà di stabilimento deriva dal principio generale di divieto di discriminazioni fiscali.
Discriminare significa trattare in modo diverso persone che si trovano in situazioni analoghe o trattare nello stesso modo persone che si trovano in situazioni diverse, senza una giustificazione oggettiva e ragionevole. Il principio, nato in ambito internazionale per contrastare la proliferazione di misure protezionistiche degli Stati, ha trovato massima espressione in ambito comunitario, dove è stato posto in relazione diretta con il principio di libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali, che è l’obiettivo della politica comunitaria.
Esso rappresenta una garanzia per il soggetto di diritto nei confronti di norme che determinino, come effetto immediato o mediato, differenze nella disciplina normativa prive di obiettiva giustificazione. Il divieto di discriminazione ha assunto un ruolo di spicco nella costruzione dell’ordinamento giuridico comunitario diventando, di fatto, lo strumento attraverso cui rendere effettivi i principi generali di uguaglianza e della parità di trattamento.
La norma, contenuta nell’articolo 18 (ex articolo 12 del TCE) del Trattato sul funzionamento dell’unione Europea stabilisce che “è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità“.
Da qui deriva il principio della libertà di stabilimento che andremo di seguito ad analizzare.
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La libertà di stabilimento: principi e regole
La libertà di stabilimento è una delle libertà fondamentali riconosciute e tutelate dal Trattato CE e fa parte di quel nucleo originario di diritti e libertà economiche predisposte per la realizzazione del mercato unico comunitario.
La disciplina, contenuta negli articoli da 49 a 54 del Trattato CE, investe qualsiasi attività economica svolta in regime di non subordinazione avente carattere di continuità e stabilità e consente ad ogni cittadino comunitario di trasferirsi in uno Stato membro diverso da quello di origine per “accedere alle attività non salariate e al loro esercizio, nonché per costituire e gestire imprese industriali, artigianali, commerciali o agricole e società“.
La norma, che si applica a tutti i cittadini dell’unione europea ovvero a chiunque, ai sensi dell’articolo 20 “abbia la cittadinanza di uno Stato membro” pone altresì uno specifico divieto stabilendo, appunto che sono proibite le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro.
Il requisito della cittadinanza è inderogabile e consente quella fondamentale distinzione tra cittadini comunitari ed extracomunitari nel fruire di una libertà fondamentale, garantita dal Trattato in vista di una maggiore integrazione europea. L’articolo 54 del Trattato estende, poi, il principio anche alle persone giuridiche, a condizione che queste siano “costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro ed aventi la sede sociale, amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità“.
Liberà di stabilimento: società
Il legame con l’ordinamento comunitario avviene, dunque, quando le società, contemporaneamente:
- Siano costituite secondo la legge interna di uno Stato membro;
- Abbiano localizzato il proprio centro d’interessi all’interno del territorio comunitario.
Se dal punto di vista teorico rispetto a tale diritto l’equiparazione tra persone fisiche e società è piena, sul piano concreto, l’attuazione di tale libertà ha incontrato notevoli ostacoli derivanti soprattutto dalle numerose e significative differenze esistenti tra le legislazioni degli Stati membri.
L’esistenza stessa di una società dipende, in sostanza, dalla legge nazionale dello stato di costituzione ed è questo il maggior ostacolo che si frappone alla piena attuazione della libertà di stabilimento. Affinché una società, regolarmente costituita nello stato di origine, possa liberamente esercitare la libertà di stabilimento è necessario, infatti, che sia riconosciuta anche dalle autorità dello stato di stabilimento.
In assenza di tale riconoscimento la società migrante non potrebbe godere, nello stato ospite, della personalità giuridica e quindi del beneficio della responsabilità limitata. Inizialmente, visto che non esisteva una definizione unitaria, a livello comunitario, di persona giuridica, l’applicazione delle norme in materia di diritto di stabilimento, si basava sul “mutuo riconoscimento” delle società tra i vari Stati membri.
L’opera di coordinamento del diritto societario, si è concretizzata nell’adozione di numerose Direttive, che disciplinavano tanto la costituzione delle società, quanto la loro struttura ed i bilanci. Ma solo con il Consiglio europeo di Nizza del 2000, verrà elaborato un concetto unitario di società europea. Tale accordo si è concretizzato con l’adozione del Regolamento CE n. 2157/2001 del Consiglio dell’8 ottobre 2001, il quale fissa lo statuto della Società europea, in modo da permettere a tutte le società che non intendono operare nel mercato di un singolo Stato membro, di potersi organizzare a livello comunitario.
Libertà di stabilimento primaria e secondaria
La finalità della norma è duplice in quanto intende innanzitutto garantire che le persone fisiche o giuridiche residenti in uno Stato membro non subiscano nessuna disparità di trattamento nel Paese di stabilimento (sempre Stato membro), ma contemporaneamente persegue la finalità di vietare allo Stato membro di origine di ostacolare le persone fisiche o giuridiche nell’esercizio dei diritti garantiti dalla libertà di stabilimento.
Quest’ultima sarebbe, infatti, priva di ogni significato laddove lo Stato membro di origine potesse proibire, o anche ostacolare, i contribuenti di stabilirsi in un altro Paese dell’Unione Europea. La libertà di stabilimento può essere esercitata direttamente, per mezzo di un’attività economicamente rilevante in un Paese comunitario (stabilimento primario), oppure attraverso l’apertura di un centro secondario di attività in un Paese comunitario diverso da quello d’origine (stabilimento a titolo secondario).
Mentre nel caso delle persone fisiche, lo stabilimento a titolo principale si realizza immediatamente attraverso l’accesso e l’esercizio nel Paese ospite di un’attività economica o professionale, per le persone giuridiche si ha un sistema più complesso, soprattutto nei casi di società già costituite e trasferite da uno Stato ad un altro.
In tale ipotesi è infatti necessario che vi sia il trasferimento della sede sociale, intesa come sede sociale effettiva o reale. Tale condizione comporta una serie di difficoltà legate al riconoscimento nello stato ospitante della società, come precedentemente affermato. Nella realtà operativa si registra, tuttavia, che è prassi consolidata delle aziende intraprendere l’esercizio di una attività economica in un paese della Comunità Europea, non tanto direttamente quanto attraverso lo spostamento di parte della propria attività nello stato ospite tramite l’apertura di agenzie, filiali e succursali.
Come ribadito, infatti, dalla Corte la ratio sottostante all’esercizio dello stabilimento a titolo secondario è che tale “libertà non si limita al diritto di stabilirsi una sola volta nell’ambito della Comunità” ma quella di permettere allo stabilito di creare e mantenere più di uno stabilimento all’interno del territorio comunitario.
Effetti del trasferimento della residenza
L’assenza, nell’Unione Europea, di una disciplina armonizzata nell’ambito dell’imposizione diretta, implica che, in occasione dei trasferimenti transfrontalieri di residenza, possano crearsi delle distorsioni nel trattamento fiscale dei singoli beni o dei complessi aziendali delle società che trasmigrano da una giurisdizione fiscale all’altra o che divengono oggetto d’imposizione da parte di più Stati membri.
Il cambio di residenza può determinare, infatti, una perdita di gettito fiscale per il Paese di origine non solo in relazione ai redditi futuri ma anche ai plusvalori latenti (quindi maturati ma non ancora realizzati) dei beni appartenenti al contribuente che trasferisce la propria residenza.
Per questo motivo, alcuni ordinamenti tributari contengono norme antielusive dirette ad evitare trasferimenti di residenza finalizzati a conseguire un risparmio d’imposta o disposizioni di sistema che semplicemente assoggettano ad imposizione alcune tipologie reddituali per coloro che trasferiscano la propria residenza in un altro Stato (anche denominate exit tax).
Evoluzione giurisprudenziale sull’exit tax
La Corte di Giustizia Europea si è accostata per la prima volta a tematiche afferenti l’exit tax con la sentenza Daily Mail del 27 settembre 1988 (C-371-10), in materia di trasferimento della sede sociale.
La Corte UE ha affermato il principio secondo cui in mancanza di un’armonizzazione dei diritti societari nazionali a livello comunitario, uno Stato membro che, in base al proprio ordinamento giuridico, attribuisce ad una società personalità giuridica, ha anche il potere di sottrarre, secondo i propri criteri, alla medesima società la personalità giuridica conferita.
In sostanza, l’individuazione dei criteri di collegamento non è sottoposta ad alcun vincolo del diritto europeo, rientrando nella piena discrezionalità di ogni singolo Stato membro. Sicché, nel caso in cui l’ordinamento di uno Stato imponga alla società che trasferisce la propria sede all’estero il suo scioglimento, detto Stato ha pieno diritto di imporre la tassazione immediata delle plusvalenze emerse. Tuttavia, detto potere di scelta concerne esclusivamente il mantenimento della società di diritto dello Stato di origine e non legittima lo stesso ad imporre una tassazione in uscita a qualunque condizione.
Ciò significa che, nel caso in cui lo stato di origine ammetta il trasferimento con mantenimento della qualità di società di diritto dello Stato di origine, opera il diritto di ogni cittadino comunitario alla libertà di stabilimento.
Armonizzazione UE
Successivamente, la Corte UE con la sentenza National Grid Indus, del 29 novembre 2011 (C371/10), ha portato i vari stati UE ad uniformare la propria normativa in termini di exit tax per uniformarla in ambito UE.
Ed infatti, le modifiche apportate all’articolo 166 del DPR n. 917/86, ad opera del dell’articolo 91, comma 1, del D.L. n. 1/2012 rappresentano appunto il tentativo del Legislatore nazionale di allineare il regime dell’exit tax ai principi comunitari statuiti nella suddetta sentenza.
Nello specifico al Corte UE ha stabilito che ogni Stato membro, in virtù del principio di territorialità fiscale, è legittimato ad assoggettare a tassazione, in caso di trasferimento all’estero della società, le plusvalenze latenti che sono maturate nel periodo di residenza della stessa sul proprio territorio.
Secondo la Corte, nel caso dell’exit tax la restrizione della libertà di stabilimento trova giustificazione nello scopo di mantenere una equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri.
Tuttavia, la libertà di stabilimento viene lesa laddove le norme nazionali impongono la riscossione immediata dell’imposta sulle plusvalenze, ossia al momento del trasferimento all’estero della sede, in quanto idonea a disincentivare la scelta del contribuente di esercitare il diritto al trasferimento ex articolo 49 del Trattato CEE.
Conclusioni della Corte
Sulla base di tale assunto la Corte conclude che l’applicazione da parte di uno Stato UE di una tassazione sulle plusvalenze latenti degli assets per effetto del trasferimento di una società in un altro Stato membro, non osta alla libertà di trasferimento e rispetta il principio di proporzionalità nel limite in cui venga consentito al contribuente di optare tra la riscossione immediata dell’exit tax e il c.d. “tax deferral“, ovvero il differimento della sua riscossione al momento del realizzo dei plusvalori latenti.
Ai fini della qualificazione dell’imposta dovuta è necessario considerare le plusvalenze latenti originate nello Stato di uscita, senza tener conto di eventuali plusvalenze o minusvalenze che si sono generate successivamente allo stesso.
Exit tax italiana articolo 166 del Tuir
Come detto, le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di Giustizia UE sono state recepite dal Legislatore italiano che ha modificato l’articolo 166 del DPR n. 917/86 in tema di exit tax.
In particolare, il comma 2-quater dell’articolo 166 del DPR n. 917/86 stabilisce: