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Filiali estere delle multinazionali e normativa CFC

Fiscalità InternazionaleFiliali estere delle multinazionali e normativa CFC

Le normative CFC (Controlled Foreign Companies), strumenti essenziali nel controllo della fiscalità delle filiali estere, sono progettate per contrastare l'elusione fiscale attraverso l'uso di società in paesi a bassa tassazione.

L’aumento delle attività transfrontaliere conduce le aziende ad ottimizzare la loro struttura fiscale per massimizzare i profitti e minimizzare i costi. Tuttavia, questo processo può comportare il rischio di pratiche di elusione fiscale, che i governi di tutto il mondo stanno cercando di combattere attraverso normative sempre più sofisticate. Tra queste, le normative CFC (Controlled Foreign Companies) prevedono il controllo delle filiali estere e nella prevenzione della sottrazione di basi imponibili dai paesi ad alta tassazione.

Le normative CFC sono state introdotte per contrastare l’uso delle filiali estere situate in giurisdizioni a bassa tassazione come strumento per spostare i profitti e ridurre l’imposta complessiva dovuta nel paese d’origine della società madre. In pratica, queste normative obbligano le società madri a includere nei loro redditi imponibili i profitti delle loro filiali estere, anche se tali profitti non sono stati distribuiti sotto forma di dividendi. Questo meccanismo mira a garantire che i profitti generati all’estero non sfuggano all’imposizione fiscale, preservando così le entrate fiscali nazionali.

La normative CFC è regolata dall’art. 167 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR). Le modifiche più recenti, in linea con le raccomandazioni dell’OCSE e dell’Unione Europea, riflettono l’importanza di un approccio coordinato e coerente per affrontare l’elusione fiscale a livello globale.

Origini storiche delle normative CFC

Le normative CFC hanno una storia radicata nella necessità di combattere l’elusione fiscale a livello internazionale, fenomeno che ha iniziato a emergere con maggiore intensità a partire dalla seconda metà del XX secolo. Con la globalizzazione e l’espansione delle multinazionali, le aziende hanno trovato sempre più facile trasferire i profitti a filiali situate in giurisdizioni a bassa tassazione o paradisi fiscali, riducendo così drasticamente l’imposta dovuta nel paese di origine. In risposta a questo fenomeno, diverse nazioni hanno iniziato a sviluppare leggi mirate a riportare questi profitti alla tassazione domestica.

Una delle prime giurisdizioni a introdurre una normativa CFC sono stati gli Stati Uniti nel 1962, con il Subpart F del Internal Revenue Code; mirando a tassare direttamente i redditi di certe tipologie di filiali estere controllate da società americane, eliminando l’incentivo a rimandare indefinitamente la distribuzione dei profitti a livello nazionale.

L’Unione Europea ha introdotto normative CFC più tardi, con l’obiettivo di armonizzare la tassazione all’interno del mercato unico e contrastare la concorrenza fiscale dannosa tra gli Stati membri. L’evoluzione della normativa europea è stata particolarmente influenzata dalle raccomandazioni dell’OCSE e dalle iniziative BEPS (Base Erosion and Profit Shifting).

Differenze tra giurisdizioni

Le normative CFC variano notevolmente da un paese all’altro, riflettendo le diverse priorità e strutture legali delle giurisdizioni fiscali. Ad esempio, mentre la normativa americana Subpart F si concentra su specifiche categorie di redditi, come quelli derivanti da attività di vendita o servizi tra parti correlate, la normativa italiana (art. 167 del TUIR) è più ampia, mirando a includere tutti i redditi passivi prodotti da filiali in paesi a bassa tassazione.

In Giappone, la normativa CFC è nota per il suo approccio rigoroso, che include un’ampia gamma di redditi all’interno della tassazione CFC, non limitandosi ai soli redditi passivi. Al contrario, paesi come il Regno Unito hanno implementato normative CFC che offrono esenzioni più ampie, come la “motive test”, che permette di escludere le filiali estere dalla tassazione CFC se si dimostra che la loro costituzione è motivata da ragioni commerciali genuine e non da intenti di evasione fiscale.

Implicazioni economiche per le imprese multinazionali

Le normative CFC hanno un impatto diretto sulle strategie fiscali e operative delle multinazionali. Queste imprese devono ora considerare non solo le aliquote fiscali nei paesi in cui operano, ma anche la possibilità che i profitti generati all’estero vengano tassati nel paese di origine. Questo può influenzare la decisione su dove localizzare una nuova filiale o come strutturare le operazioni internazionali.

Ad esempio, una multinazionale che sceglie di localizzare una filiale in un paese con una bassa aliquota fiscale potrebbe scoprire che i profitti di quella filiale vengono comunque tassati nel paese d’origine a causa delle normative CFC. Questo può ridurre i benefici attesi della localizzazione all’estero e spingere l’impresa a riconsiderare la sua strategia globale.

Inoltre, l’aumento della complessità normativa legata alle CFC richiede alle aziende di investire significativamente in consulenza fiscale e compliance per evitare sanzioni. Questo è particolarmente vero in giurisdizioni con norme CFC complesse e in evoluzione, come l’Italia e il Regno Unito, dove le imprese devono monitorare costantemente le modifiche legislative per garantire la conformità.

Normative CFC: quadro normativo e funzionamento

La normativa italiana in materia di CFC, prevede un test di tassazione effettiva, il cosiddetto Effective Tax Rate (ETR) test, che confronta il livello di tassazione effettiva della controllata estera con quello che sarebbe stato applicato se la società fosse stata residente in Italia. Se il tax rate estero è inferiore al 50% di quello italiano, i redditi della controllata estera sono soggetti a tassazione per trasparenza in Italia. Questo significa che i profitti della filiale vengono inclusi nella base imponibile della società madre, indipendentemente dalla distribuzione degli utili.

Oltre al test di tassazione effettiva, la normativa italiana richiede che oltre un terzo dei proventi della controllata estera provenga da passive income, ossia redditi di natura passiva come interessi, dividendi, royalties e proventi derivanti da attività finanziarie. Questi redditi, essendo più facilmente trasferibili e meno legati a una specifica località operativa, sono spesso accumulati in filiali situate in paradisi fiscali. Se entrambe queste condizioni sono soddisfatte, i redditi della controllata estera devono essere tassati in Italia.

L’importanza della documentazione e della compliance

La corretta applicazione delle normative CFC richiede un’accurata documentazione che dimostri il livello di tassazione effettiva della controllata estera e la natura dei redditi prodotti. Le aziende devono essere in grado di fornire prove concrete che la filiale estera non è stata costituita principalmente per motivi fiscali, ma che svolge una reale attività economica con un valore aggiunto significativo.

In Italia, le aziende che ritengono di non dover applicare la normativa CFC possono presentare un interpello preventivo all’Agenzia delle Entrate per ottenere una conferma sulla non applicabilità delle norme. Questo processo, tuttavia, richiede una preparazione approfondita e una conoscenza dettagliata della normativa fiscale internazionale. In mancanza di una documentazione adeguata, le autorità fiscali potrebbero decidere di applicare le sanzioni previste per la mancata conformità, che possono essere particolarmente onerose.

Esempi pratici di applicazione delle normative CFC

Caso studio 1: un’azienda italiana con una filiale in Irlanda

Consideriamo un’azienda italiana che ha stabilito una filiale in Irlanda, un paese noto per la sua politica fiscale favorevole alle imprese, con un’aliquota d’imposta sulle società significativamente più bassa rispetto a quella italiana. L’Irlanda ha attratto numerose multinazionali grazie alla sua aliquota d’imposta sugli utili del 12,5%, ben inferiore all’aliquota standard dell’IRES italiana del 24%.

Se la filiale irlandese genera principalmente redditi da attività operative tradizionali, come la vendita di prodotti o servizi, potrebbe non essere automaticamente soggetta alla normativa CFC. Tuttavia, se una parte significativa dei suoi redditi proviene da fonti di passive income, l’azienda italiana dovrà valutare se la tassazione effettiva in Irlanda è inferiore al 50% di quella che sarebbe stata applicata in Italia.

Se così fosse, questi redditi potrebbero essere soggetti alla normativa CFC, e l’azienda italiana sarebbe tenuta a includere tali profitti nella sua base imponibile, sottoponendoli a tassazione in Italia. In pratica, questo significa che, nonostante l’aliquota favorevole irlandese, l’azienda italiana potrebbe non trarre vantaggio fiscale dall’insediamento della filiale in Irlanda se la normativa CFC si applica.

Caso studio 2: imprese con filiali in paesi a fiscalità privilegiata

Prendiamo l’esempio di un’altra azienda italiana che ha costituito una filiale in un cosiddetto “paradiso fiscale“, come le Isole Cayman. Le Isole Cayman non impongono imposte sul reddito delle società, il che le rende un’opzione attraente per le multinazionali che cercano di minimizzare il carico fiscale.

In questo caso, la normativa CFC italiana si applica quasi automaticamente, poiché la tassazione effettiva nella giurisdizione della filiale è praticamente inesistente. Anche se la filiale svolge attività economiche, come la gestione di investimenti o la concessione di licenze su proprietà intellettuali, i redditi prodotti sarebbero comunque soggetti a tassazione per trasparenza in Italia, dato che l’aliquota fiscale applicabile alle Isole Cayman è inferiore al 50% di quella italiana.

Caso studio 3: applicazione delle CFC in operazioni di cessione di partecipazioni

Consideriamo un’azienda italiana che possiede una partecipazione significativa in una filiale situata in un paese con un’aliquota fiscale favorevole, come il Lussemburgo. Questa filiale ha recentemente venduto una partecipazione in un’altra società, generando un significativo guadagno di capitale. Nella maggior parte dei casi, i guadagni di capitale possono essere considerati passive income, specialmente se derivano da investimenti finanziari piuttosto che da attività operative.

La normativa CFC si applica anche in questo contesto. Se il guadagno di capitale è stato tassato a un’aliquota inferiore al 50% di quella che sarebbe stata applicata in Italia, e se oltre un terzo dei redditi della filiale lussemburghese proviene da tali guadagni passivi, l’azienda italiana dovrà includere questi redditi nella propria base imponibile. Questo può complicare significativamente le operazioni di cessione di partecipazioni, poiché l’azienda deve considerare non solo le implicazioni fiscali nel paese della filiale, ma anche l’impatto delle normative CFC nel proprio paese di origine.

Strategie di compliance e pianificazione fiscale

Per le aziende multinazionali, la compliance con le normative CFC è essenziale per evitare sanzioni e garantire una gestione fiscale trasparente. Uno degli strumenti più efficaci a disposizione delle aziende per assicurarsi che le normative CFC vengano rispettate è linterpello preventivo. Questo strumento permette alle imprese di chiedere chiarimenti preventivi all’Agenzia delle Entrate riguardo all’applicazione della normativa CFC a specifiche situazioni aziendali. Presentando un interpello, l’azienda può ottenere una risposta vincolante che conferma se una determinata filiale estera è soggetta o meno alla normativa CFC, riducendo così il rischio di sanzioni future.

La pianificazione fiscale internazionale è un aspetto fondamentale per le multinazionali che desiderano ottimizzare la loro struttura fiscale globale mantenendo la compliance con le normative CFC. Una delle strategie chiave è la selezione attenta delle giurisdizioni in cui stabilire filiali estere. Le aziende devono considerare non solo l’aliquota fiscale della giurisdizione, ma anche il rischio che i profitti generati siano soggetti a tassazione per trasparenza nel paese di origine.

Un approccio efficace può essere quello di localizzare le attività economiche in paesi con aliquote fiscali simili a quelle del paese di origine, riducendo così la probabilità che la normativa CFC si applichi. Inoltre, le aziende possono considerare la possibilità di suddividere le loro attività tra più giurisdizioni, in modo da diluire l’impatto delle normative CFC e minimizzare il rischio di essere considerate una Controlled Foreign Company.

Un’altra strategia è l’utilizzo di strutture fiscali avanzate, come la creazione di hub regionali in paesi con normative fiscali favorevoli ma non considerate paradisi fiscali. Questi hub possono fungere da centri operativi reali, con attività economiche significative, riducendo il rischio di applicazione delle norme CFC e ottimizzando al contempo la gestione fiscale globale dell’azienda. Tuttavia, è essenziale che queste strutture siano supportate da un’attività economica effettiva e non siano costituite unicamente per motivi fiscali.

Pillar 2 e le CFC: un nuovo scenario normativo

Negli ultimi anni, il panorama della fiscalità internazionale è stato caratterizzato da significative trasformazioni, in gran parte guidate dalle iniziative dell’ OCSE e dall’Unione Europea. Uno degli sviluppi più rilevanti è l’introduzione del Pillar 2, una delle componenti chiave del progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) dell’OCSE, che mira a stabilire un’aliquota fiscale minima globale per le multinazionali. Questa nuova normativa si sovrappone in modo significativo alle normative CFC.

Il Pillar 2 stabilisce un’aliquota minima globale del 15% per le multinazionali con ricavi superiori a 750 milioni di euro, con l’obiettivo di contrastare l’erosione della base imponibile e il trasferimento dei profitti verso giurisdizioni a bassa tassazione. Questa iniziativa si coordina con le normative CFC, che mirano a tassare i profitti delle filiali estere in paesi con una tassazione inferiore alla metà di quella del paese di origine. Tuttavia, mentre le normative CFC si concentrano principalmente sui passive income e su altre forme di reddito ritenute suscettibili di elusione fiscale, il Pillar 2 introduce una tassazione minima su una base più ampia, coprendo tutte le tipologie di reddito.

Sfide e opportunità per le imprese

Le normative CFC e le recenti modifiche normative, come l’introduzione del Pillar 2, pongono significativi rischi per le multinazionali. Le aziende devono essere in grado di identificare e valutare i rischi fiscali derivanti dalle loro operazioni internazionali, comprese le potenziali sanzioni e il rischio di doppia imposizione. Le aziende devono essere in grado di dimostrare che le loro operazioni sono guidate da ragioni economiche sostanziali e non solo da motivazioni fiscali. La mancata dimostrazione di tale attività economica reale può portare le autorità fiscali a contestare la validità delle strutture societarie internazionali, applicando sanzioni o richiedendo il pagamento di imposte aggiuntive.

Nonostante i rischi per le imprese, le normative CFC e le nuove regole internazionali offrono anche opportunità di ottimizzazione fiscale per le imprese. Un’opportunità è l’ottimizzazione della struttura operativa e societaria globale per minimizzare l’onere fiscale complessivo mantenendo la conformità alle normative. Una strategia efficace può essere quella di rivedere e riallineare le catene di approvvigionamento e le strutture operative in modo da massimizzare l’efficienza fiscale. Ad esempio, un’azienda può decidere di centralizzare le funzioni di ricerca e sviluppo (R&D) in paesi che offrono incentivi fiscali per l’innovazione, riducendo al contempo il rischio di essere soggetta alle normative CFC. Un’altra opportunità può derivare dalla digitalizzazione e dall’automazione dei processi fiscali.

Coordinamento tra normative CFC e Pillar 2

In alcuni casi, le due normative possono sovrapporsi, creando complessità nella gestione fiscale delle filiali estere. Ad esempio, se una filiale estera è soggetta sia alla normativa CFC sia al Pillar 2, l’azienda potrebbe essere tenuta a calcolare due diverse basi imponibili e a determinare l’imposta dovuta secondo entrambe le normative. Inoltre, la coesistenza delle due normative può generare dubbi interpretativi su come applicare le disposizioni in modo coerente. Ad esempio, se una filiale estera è soggetta a tassazione per trasparenza secondo la normativa CFC, ma la tassazione effettiva nel paese della filiale soddisfa comunque i requisiti del Pillar 2, potrebbe sorgere la questione se sia necessario applicare ulteriori imposte nel paese di origine o se la tassazione minima globale del Pillar 2 sia sufficiente a escludere l’applicazione della CFC.

Conclusione

Le normative CFC (Controlled Foreign Companies) sono uno strumento mediante il quale i governi contrastano l’elusione fiscale internazionale. Attraverso la tassazione per trasparenza dei redditi delle filiali estere, queste normative mirano a impedire che le multinazionali trasferiscano i loro profitti in giurisdizioni a bassa tassazione, proteggendo così le basi imponibili nazionali.

L’introduzione di normative come il Pillar 2 dell’OCSE ha ulteriormente rafforzato il quadro normativo globale, imponendo un’aliquota fiscale minima del 15% per le multinazionali e aggiungendo nuove sfide e opportunità per le imprese. Nonostante la loro efficacia nel prevenire l’elusione fiscale, le normative CFC presentano alcune criticità che potrebbero essere migliorate attraverso interventi legislativi. Una proposta di policy potrebbe essere l’armonizzazione a livello internazionale delle soglie di tassazione effettiva e dei criteri per la definizione di passive income, al fine di ridurre la complessità e migliorare la coerenza applicativa tra le diverse giurisdizioni.

Questo potrebbe essere realizzato attraverso una maggiore collaborazione tra l’OCSE e le autorità fiscali nazionali, con l’obiettivo di sviluppare linee guida comuni che possano essere adottate dai vari paesi. Un altro ambito di miglioramento riguarda la semplificazione delle procedure di interpello preventivo e la maggiore chiarezza nelle risposte delle autorità fiscali. Un processo più snello e trasparente potrebbe aiutare le aziende a comprendere meglio se e come le normative CFC si applicano alle loro operazioni, riducendo il rischio di contenziosi e promuovendo una maggiore certezza del diritto.

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Giorgia Dumitrascu
Giorgia Dumitrascu
Laureata in Giurisprudenza presso l’Universitá "La Sapienza" di Roma con tesi specialistica in diritto processuale penale, si è perfezionata presso il medesimo Ateneo nella Scuola di Specializzazione per Professioni Legali (SSPL), conseguendo il Diploma di Specializzazione equipollente al Dottorato di Ricerca. Avvocato, abilitata a 28 anni, presso la Corte d'Appello di Roma, è titolare del proprio Studio professionale. Svolge attività professionale nell'ambito del diritto civile e del diritto di famiglia mettendo al centro del proprio lavoro, l’ascolto del cliente.
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