Quando la plusvalenza non si tassa in Italia. La sostanza economica batte la forma giuridica: cosa significa per chi vende tramite strutture internazionali e deve superare il rischi di contestazione di interposizione fittizia.
La Corte di giustizia tributaria di Milano (sentenza 3525 depositata il 5 settembre 2025) stabilisce che quando la struttura estera ha sostanza economica reale, la plusvalenza dalla vendita di società italiane non può essere tassata nel nostro Paese. Se stai valutando di vendere una partecipazione italiana attraverso una holding estera, o se hai già ricevuto un accertamento su operazioni simili, questa sentenza rappresenta un precedente fondamentale. Non basta più che l'Agenzia delle Entrate contesti formalmente l'interposizione: deve dimostrare che la struttura sia effettivamente fittizia, priva di autonomia decisionale e di sostanza operativa.
In questo articolo scoprirai quando una holding estera che vende società italiane può legittimamente beneficiare dell'esenzione fiscale, quali elementi concreti fanno la differenza tra una struttura genuina e una interposta, e come la recente giurisprudenza sta ridisegnando i confini della pianificazione fiscale internazionale.
Quando la plusvalenza non si tassa in Italia
La plusvalenza realizzata da una holding estera dalla vendita di partecipazioni in società italiane non è tassabile in Italia quando la struttura estera possiede sostanza economica reale e autonomia gestionale. Non è sufficiente che formalmente la holding sia residente all'estero: deve dimostrare di avere una propria operatività concreta.
Gli elementi che fanno la differenza sono tangibili e verificabili: uffici fisici con personale dedicato, consiglio di amministrazione attivo con professionisti qualificati e residenti nel Paese della holding, decisioni documentate attraverso verbali di CDA e assemblee, sostenimento effettivo dei costi operativi. Quando questi requisiti sono presenti, la struttura non può essere considerata interposizione fittizia ai sensi della normativa vigente.
La recente sentenza milanese ha chiarito che l'onere probatorio grava sull'Amministrazione finanziaria: non bastano presunzioni generiche o la semplice convenienza fiscale dell'operazione. Servono prove concrete che dimostrino l'assenza di sostanza e l'automatismo nel trasferimento dei proventi. In presenza di autonomia decisionale documentata, anche le holding con strutture contenute possono essere considerate genuine, purché proporzionate alle funzioni svolte.
Questo principio vale sia per i fondi di private equity internazionali che per imprenditori che utilizzano veicoli esteri per operazioni straordinarie. La chiave è sempre la stessa: costruire e documentare la reale operatività della holding, evitando schermi meramente cartolari che esistono solo sulla carta.
Analisi del caso concreto
Il caso esaminato dalla Corte milanese riguardava un fondo di private equity internazionale che aveva venduto una nota società italiana attiva nel ...
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