Pianificazione fiscale aggressiva: esempi pratici e conseguenze

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Pianificazione fiscale aggressiva e le possibilità ci contrasto da parte delle Amministrazioni fiscali. Effetti legati all'implementazione di sistemi di aggressive tax planning ed esempi pratici.

In un contesto globale sempre più interconnesso e dematerializzato le imprese scelgono di ampliarsi andando a delocalizzare la propria attività in paesi esteri per sviluppare nuove potenzialità di crescita. Tuttavia, quando la motivazione (c.d. “valida ragione economica“) delle scelte imprenditoriali riguarda la sola variabile fiscale, possono sorgere delle problematiche fiscali importanti. Quando un impresa, infatti, si pone l’obiettivo di trasferire materia imponibile da uno Stato a tassazione più elevata ad uno Stato a fiscalità privilegiata (o assente) siamo di fronte ad un’attività di pianificazione fiscale aggressiva (senza vi sia alla base una valida ragione economica).

In un contesto globale di questo tipo, anche gli stessi stati esteri si trovano ad essere in continua concorrenza tra di loro al fine di offrire le migliori condizioni possibili per l’insediamento e l’investimento di imprese estere nel proprio territorio. Infatti, le scelte di tassazione o di agevolazione concesse da uno Stato possono influenzare le scelte degli altri Stati che possono trovarsi in competizione gli uni con gli altri.

In questo ambito le imprese possono andare ad individuare quali sono gli Stati ove investire per internazionalizzarsi ed ampliare la propria attività. Tuttavia, in alcuni casi, ovvero quando non vi è la variabile economica a governare quella fiscale, ma piuttosto avviene il contrario, ci si può trovare a scontrarsi con le normative antiabuso, volte ad evitare l’insorgere di fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva. Oggi, con vari metodi e sistemi, tanti Stati cercano di contrastare questi fenomeni, ma con risultati ancora da rivedere.

Il problema della concorrenza fiscale tra i vari Stati

L’assenza di un’armonizzazione fiscale tra i vari Stati determina un quadro assai variegato di regimi e sistemi di determinazione del reddito imponibile, nonché di aliquote, suscettibili di creare comportamenti opportunistici da parte delle imprese, ma anche degli Stati stessi, che potrebbero essere indotti ad abbassare le proprie aliquote fiscali al fine di incentivare l’insediamento di imprese e persone facoltose (in questi termini vedi l’articolo su 6 regimi fiscali per non domiciliati: “Regimi fiscali per impatriati“). Questa competizione, di per se legittima, in alcuni casi, specie se accompagnata da una forte deregolamentazione giuridica può portare alla formazione di comportamenti non corretti, rientranti nelle seguenti categorie:

  • Elusione fiscale – porre in essere operazioni velatamente antigiuridiche;
  • Evasione fiscale – porre in essere operazioni in violazione di una norma giuridica;
  • Riciclaggio di denaro – riutilizzo di denaro proveniente da fonti illecite.

È evidente, quindi, come il comportamento degli Stati in qualche modo influenzi il comportamento delle imprese, volte a ricercare il massimo vantaggio fiscale possibile, sfruttando il disallineamento delle normative fiscali tra stati diversi nelle proprie attività di tax planning.

L’esempio classico che possiamo fare oggi, riguarda l’economia digitale. Un impresa oggi può creare profitti in un mercato dove nemmeno è presente fisicamente, ed insediarsi in uno Stato terzo, magari a fiscalità privilegiata dove assoggettare a tassazione i profitti percepiti in altri stati.

Le strutture complesse delle società che operano in forma multinazionale

Una volta inquadrato il problema sotto il profilo macroeconomico, vediamo adesso come in un contesto di concorrenza tra i diversi Stati si inseriscono le imprese organizzate in forma complessa, ovvero le multinazionali. È inutile girare intorno al fatto che le ipotesi di pianificazione fiscale nazionale rappresentino ben poca cosa rispetto a quanto può, invece, sfruttare un’impresa costituita in forma di multinazionale.

Per questo motivo, al crescere delle dimensioni aziendali si assiste all’avvio di procedure di internazionalizzazione di impresa. Le imprese multinazionali, infatti, operano in mercati esteri con motivazioni differenti di natura economico/aziendale. Infatti, ai fini delle scelte di localizzazione vengono presi in considerazione fattori come il costo del lavoro, la facilità di reperimento delle materie prime, la qualità delle infrastrutture, etc. Naturalmente, all’interno di questo contesto l’impresa cerca anche di ridurre il proprio carico fiscale. In questo ambito, quindi, l’impresa gioca attorno alla libertà di stabilimento ed obbligazione tributaria.

In questo contesto, la sentenza della Corte di Giustizia UE, C196/04, Sentenza Cadbury Schweppes afferma un principio molto importante:

un cittadino comunitario (persona fisica o giuridica) non può essere limitato della possibilità di avvalersi delle disposizioni del Trattato solo perché ha inteso approfittare dei vantaggi fiscali offerti da norme di uno Stato diverso da quello in cui risiede. Affermare il contrario significa limitare la libertà di stabilimento“.

Pertanto, quindi, possiamo dire che non siamo di fronte ad ipotesi di abuso quando la ragione di un insediamento all’estero è legata da motivazioni economiche, tuttavia, quando si ravvisano solo motivazioni fiscali, le problematiche, potrebbero sorgere. E’ il caso, ad esempio, della costituzione all’estero di società conduit insediate all’estero da multinazionali al solo scopo di favorire l’applicazione di agevolazioni fiscali.

Che cos’è la pianificazione fiscale aggressiva?

La pianificazione fiscale aggressiva è un fenomeno tributario che si manifesta in ambito transnazionale. Tale fenomeno scaturisce dalle disparità fiscali esistenti tra i singoli sistemi giuridici dei vari stati. Gli strumenti di aggressive tax planning sono rappresentati dal complesso di iniziative volte a rendere ottimale l’onere fiscale che ne consegue, attraverso artificiosi spostamenti di ricchezza verso l’estero, non motivati da ragioni extrafiscali, finalizzati al raggiungimento di una riduzione del carico di imposta.

Si raggiunge una pianificazione aggressiva quando un’impresa attua una serie di procedure al solo ed unico scopo di spostare (trasferire) materia imponibile tra più Stati. Solitamente questo avviene tra uno Stato con un livello di tassazione più alto ad un altro con un livello più mite di imposizione. Questo spostamento di redditi determina una riduzione del livello di tassazione dell’impresa, senza che vi sia, alla base, una motivazione economica (ma esclusivamente fiscale). La ricerca del risparmio fiscale, anche transnazionale, non è vietata, ma a condizione che le scelte imprenditoriali siano guidate da valide ragioni economiche. Quando, invece, queste non vengono ravvisate siamo di fronte a forme di pianificazione fiscale aggressiva.

Pianificazione fiscale transfrontaliera

La pianificazione fiscale aggressiva crea distorsioni nelle condizioni di parità tra le società che riescono a evitare di pagare la loro giusta quota di tasse e altre società che non hanno accesso alle stesse possibilità di pianificazione fiscale transfrontaliera (prevalentemente imprese nazionali e/o di dimensioni ridotte). Gli studi indicano che le imprese multinazionali dei paesi ad alta imposizione fiscale versano circa il 30% di tasse in meno rispetto alle imprese nazionali paragonabili. Le imprese che attuano pratiche di aggressive tax planning beneficiano di una riduzione potenzialmente significativa dell’imposizione effettiva a scapito della società. In pratica, le imprese multinazionali che attuano pratiche tax planning godono di un vantaggio competitivo in termini di costi che può consentire loro di conquistare quote di mercato e di creare ostacoli all’ingresso sul mercato a discapito di altre imprese.

La pianificazione fiscale aggressiva è economicamente dannosa in quanto comporta una dissociazione tra imposte e sostanza economica. Tale attività è in grado di mettere in crisi la stabilità del sistema fiscale, le condizioni di equità tra gli Stati membri nella riscossione delle imposte sugli utili, la concorrenza leale tra imprese e un’equa ripartizione degli oneri tra i contribuenti.

Concorrenza tra le normative fiscali internazionali

Come detto la pianificazione aggressiva si sostanzia in una illecita sottrazione d’imposta che si concretizza nello sfruttamento delle disparità transnazionali tra gli ordinamenti tributari al fine di conseguire benefici fiscali che gli Stati non avrebbero altrimenti inteso concedere. Affinché si possa compiutamente parlare di pianificazione aggressiva devono rendersi evidenti i seguenti elementi:

  • Sfruttamento delle disparità per trarre un vantaggio fiscale;
  • Effetto di disallineamento;
  • Doppia non imposizione reddituale.

Sfruttamento delle disparità per trarre un vantaggio fiscale

Questo tipo di attività non si sostanzia nell’aggiramento di una specifica norma giuridica ma, piuttosto, dall’effetto della combinazione del trattamento fiscale applicabile alla medesima fattispecie, definita in modo diverso in due o più stati. Non si tratta, ad esempio, di violazioni connesse a norme tese a limitare la libertà di stabilimento ma, piuttosto, la costituzione di veicoli societari (controllati o collegati) senza alcuna valida giustificazione economica se non quella tesa ad ottenere un vantaggio fiscale altrimenti indebito.

Per portare questo elemento sul pratico, l’esempio più eclatante di questo elemento è quello dato dal famoso schema c.d. “Double Irish With Dutch Sandwich“.

Effetto di disallineamento

Si fa riferimento al disallineamento esistente tra il luogo di produzione della ricchezza e territorio su cui dovrebbero essere pagate le imposte. Si tratta di un disallineamento di gettito fiscale che da uno Stato passa ad un altro, senza aumentare il gettito fiscale di questo secondo Stato. Sul punto, da notare il progetto BEPS dell’OCSE per contrastare i c.d. “disallineamenti da ibridi”.

Doppia non imposizione reddituale

Questo elemento rappresenta il caso in cui il risparmio di imposta ottenibile è derivante dallo sfruttamento delle disparità esistenti e non rappresenta un forma di doppia non imposizione che gli stati abbiano puntualmente previsto di concedere. Di fatto, quindi, non vi è tassazione nello Stato della fonte del reddito e nemmeno in quello di residenza fiscale dell’ente.

Evasione, elusione ed abuso del diritto in Italia

Il divieto di elusione/abuso del diritto ha avuto una particolare progressione normativa. Inizialmente la norma era codificata nell’articolo 10 della Legge n. 408/90. L’applicazione della norma era molto difficile, in quanto non risultava chiaro il confine con la fattispecie di evasione fiscale. La norma richiedeva l’esistenza di un comportamento fraudolento che non ricorre, solitamente, nei comportamenti elusivi. Il divieto di elusione è stato successivamente trasfuso nell’articolo 37-bis del DPR n. 600/73. La norma trova applicazione esclusivamente nel campo delle imposte dirette e solo per alcune fattispecie. Infine ed attualmente, il divieto di elusione/abuso del diritto lo troviamo inserito nell’articolo 10-bis della Legge n. 212/00. In questo caso l’applicazione della norma riguarda, indistintamente, tutti i tributi.


Attività di contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva

L’espressione pianificazione fiscale aggressiva è stata utilizzata, nell’ambito del progetto Base Erosion and Profit Shifting (BEPS). Con questa espressione si vuole descrivere quei fenomeni che non sono contrastabili con le norme antielusive generali e specifiche di diritto interno o convenzionale. Questo tipo di comportamenti non eludono e non violano apertamente alcuna norma. Tuttavia, consentono di evitare il pagamento di imposta in alcune giurisdizioni.

Esempio di aggressive tax planning

Prendiamo il caso di un’impresa della digital economy che ha la società madre in un Paese che ha concesso i diritti di sfruttamento di marchi e brevetti ad una società controllata in Irlanda. Questa società, tuttavia, non risulta essere fiscalmente residente in Irlanda, non trovandosi li la sede dell’Amministrazione. La sede è in un Paese che non applica imposte sugli utili societari. Questa società controllata ha a sua volta concesso i diritti di sfruttamento ad una terza società controllata, costituita sempre in Irlanda. Stato ove non è prevista imposizione alla fonte su interessi e canoni.

Essendo residente negli Stati Uniti d’America, la società madre aveva potuto evitare l’applicazione della normativa Controlled Foreign Company (CFC) rispetto al reddito delle società irlandesi. Tale società ha optato per la tassazione in base al principio di trasparenza (cd. “check-the-box rules”). Le operazioni tra le due società costituite in Irlanda sono divenute fiscalmente irrilevanti ed il reddito aggregato imputato alla società americana. La base imponibile da imputare alla società madre americana è, però, esigua. I canoni conseguiti dalle due società irlandesi sono, infatti, ridotti da quelli che ciascuna di esse è tenuta a pagare alla rispettiva licenziante. Questo ha consentito di abbattere anche l’imposta irlandese sui profitti della società società irlandese (imposta pari al 12,5%). L’imposizione sul reddito della seconda società irlandese è ulteriormente ridotta. Questa ha concesso i diritti di sfruttamento in questione ad un’altra società fiscalmente residente in Olanda.

I redditi così generati in Olanda risalivano in Irlanda senza applicazione di ritenute in uscita (in Olanda) né in entrata (in Irlanda), per effetto:

  • Trattato contro le doppie imposizioni tra i Paesi. Per le royalties percepite dalla seconda società irlandese;
  • Normativa irlandese per le royalty incassate dalla prima società irlandese (che non può essere ivi tassata per il reddito di fonte non irlandese, non risultando ivi residente).

Esigenze di tutela

L’esigenza degli Stati di contrastare questo tipo di pratiche, obiettivo cardine del Progetto BEPS, si spiega in base a diverse ragioni:

  • Problemi di carattere finanziario. Avendo queste pratiche provocato ingenti mancate entrate agli Stati;
  • Motivi economici. Da ricondurre alla perdita di efficienza del mercato: la pianificazione fiscale aggressiva assicura, infatti, ai grandi gruppi societari multinazionali un vantaggio competitivo notevole rispetto alle imprese nazionali che non hanno la possibilità di risparmiare imposte spostandosi su più giurisdizioni;
  • Motivi politici e giuridici. Se i grandi contribuenti risparmiano, il peso dei tributi ricade principalmente sugli altri e questo accresce la diseguaglianza nella distribuzione dei carichi pubblici. Per la loro dimensione sovranazionale, questi fenomeni di sottrazione d’imposta non potevano essere efficacemente contrastati dai singoli Paesi, con azioni unilaterali. Si è, quindi, resa necessaria un’azione coordinata, che consentisse agli Stati di allineare le rispettive legislazioni, prevedendo apposite norme di contrasto alle principali pratiche di erosione della base imponibile nazionale che fossero il più possibile efficaci ed uniformi tra loro.

Misure di contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva

I vari Paesi stanno cercando di introdurre nei propri ordinamenti norme volte al contrasto di fenomeni di aggressive tax planning. Esempio concreto è l’implementazione da Parte dei Paesi UE della normativa BEPS. Convenzione multilaterale sottoscritta il 7 giugno 2017. L’Italia, come anche altri Paesi, sta introducendo autonomamente alcune misure BEPS nel proprio ordinamento. Il tutto adeguando prima la normativa interna rispetto alla Convenzione multilaterale.

Esempio ne è la definizione di stabile organizzazione contenuta nell’articolo 162 del DPR n. 917/86. Definizione che ha ampliato la fattispecie di stabile organizzazione anche senza presenza fisica in Italia. Questa si presenta come una categoria di illecita sottrazione di imposta, che tutti gli Stati hanno il dovere di contrastare, perché, tra l’altro, alterna il corretto funzionamento del mercato.

Elementi costitutivi della pianificazione aggressiva

Possiamo dire che gli elementi costitutivi di questa pratica sono i seguenti:

  1. Lo sfruttamento delle disparità tra sistemi diversi, al fine di trarre un indebito vantaggio fiscale;
  2. Il disallineamento tra luogo di produzione e luogo di tassazione della ricchezza;
  3. Il risultato di una doppia non imposizione a livello internazionale che gli Stato interessati non hanno inteso concedere.

Vediamo questi elementi in dettaglio.

Disparità tra sistemi fiscali diversi

La Pianificazione Fiscale Aggressiva non elude o viola direttamente alcuna norma. Questa, infatti, sfrutta le differenze tra le norme impositive di ordinamenti diversi. In pratica, l’obiettivo è sfruttare asimmetrie tra ordinamenti tributari. Ad esempio, le diverse definizioni di stabile organizzazione, dividendo o interesse. Questo tipo di pratiche sfruttano queste disparità e non sono perciò efficacemente contrastabili con misure antielusive di tipo unilaterale.

Disallineamento tra produzione e tassazione

Il secondo elemento caratterizzante è dato dall’effetto disallineamento tra luogo di produzione del reddito e quello di tassazione. Come hai visto dall’esempio precedente, il reddito derivante dalle royalty è prodotto in uno Stato, ma viene tassato in un altro. Questo fenomeno finisce per indebolire la sovranità impositiva dello Stato, provoca distorsioni nel mercato e acuisce l’ingiustizia sociale.

La doppia non imposizione fiscale

L’ultimo elemento, ma forse il più importante è la doppia non imposizione fiscale. Questo elemento ha luogo quando un dato reddito non è tassato né nella giurisdizione di origine (Stato della Fonte), Né nella giurisdizione di residenza del percettore finale (Stato della Residenza). Questo per un difetto di coordinamento delle diverse norme interne. Pensa al caso di un elemento di reddito che è qualificato come interesse, deducibile, nello Stato della Fonte e come reddito non imponibile nello Stato di Residenza.

Attenzione, pero!

Questa fattispecie deve essere tenuta distinta da quella di doppia imposizione cd. volontaria, che si verifica quando gli Stati hanno avuto ben presenti – ed, anzi, intenzionalmente perseguito – l’effetto di non imposizione. Ciò accade, ad esempio, quando lo Stato di Residenza dell’investitore concede il credito per le imposte pagate all’estero.


Esempi pratici

Vediamo adesso alcuni esempi pratici a cui ho pensato per farti capire meglio quanto sinora esposto sull’argomento.

Doppia non imposizione per le royalty

Prendi il caso di una società residente nello Stato A che ha trasferito il diritto di sfruttamento di licenze ad una propria branch (intesa come sede secondaria priva di personalità giuridica e di soggettività passiva), situata nello Stato B.

Lo Stato B, secondo la propria legislazione, non considera la branch una stabile organizzazione. Di conseguenza, non tassa le royalties da essa ricevute (siccome non possedute da un soggetto residente né prodotte nel proprio territorio). Ma queste royalties non sono soggette ad imposizione nemmeno nello Stato A. Il quale le considera conseguite direttamente dalla Stabile Organizzazione della società sua residente e, come tali, esenti ai sensi del trattato in vigore con lo Stato B (in cui è situata la stabile organizzazione).

Di conseguenza, queste royalties non sono tassate né nello Stato di residenza né nello Stato di non residenza (che, in questo caso, coincide con lo Stato della stabile organizzazione, ovvero della non stabile organizzazione nella prospettiva dello Stato B). Si ha, insomma, un effetto di doppia non imposizione. Effetto dovuto ad una asimmetria tra la norma dello Stato B che definisce la nozione di stabile organizzazione e la norma del trattato, che obbliga comunque lo Stato A ad esentare i redditi prodotti da stabili organizzazioni di propri residenti.

Disallineamento degli utili da partecipazione

Un soggetto residente nello Stato A sottoscrive una quota di partecipazione in una società residente nello Stato B. Questa società consegue redditi passivi dalla partecipazione ad un fondo, istituito nello Stato C. Poiché il fondo è fiscalmente esente e la società fiscalmente trasparente, i redditi da essa conseguiti non sono tassati né sul primo, nello Stato C, né sulla seconda, nello Stato B, ma sono imputati direttamente ai soci, ossia al nostro investitore. Secondo la normativa dello Stato B, i redditi conseguiti da soggetti fiscalmente trasparenti, ed imputati a soggetti non residenti, non sono infatti tassabili. Questo a meno che quest’ultimi non svolgano, in quello Stato, un’attività d’impresa tramite una Stabile Organizzazione.

Non essendo questo il caso, i redditi – principalmente, proventi passivi – possono essere tassati solo nello Stato di residenza dell’investitore (lo Stato A). Tuttavia, questi proventi finiscono per subire un’imposizione ridotta anche in questo Stato, dove sono classificati come utili da partecipazione, ossia come dividendi, e scontano la relativa imposizione cedolare ad aliquota contenuta. In questo caso si verifica un disallineamento (non voluto) tra norme impositive tutte interne. La conseguenza è che i proventi prodotti dal fondo di investimento non sono mai pienamente tassati alla produzione. Essi, infatti, finiscono per beneficiare comunque dell’imposizione ridotta nella giurisdizione di residenza del socio.

Coordinamento fiscale internazionale: la soluzione

In questo caso, a differenza del precedente, il problema è dovuto al fatto che non può applicarsi la norma difensiva interna dello Stato A, che prevede l’imponibilità integrale degli utili che non siano stati tassati congruamente alla produzione. Essa presuppone, infatti, che il provento percepito dall’investitore sia indeducibile dalla base imponibile della società. Ma essa non dispone, in questo caso, di una base imponibile, essendo fiscalmente trasparente (mentre il fondo non è fiscalmente residente in quello Stato). Anche qui, però, è difficile affermare che questo effetto sia frutto di un comportamento illecito del contribuente.

Non vi è elusione perché manca la norma aggirata. Né si può individuare un valore rispetto al quale questa fattispecie di pianificazione fiscale, che si realizza in ben tre ordinamenti, si ponga in antinomia, sì da considerarsi “aggressiva”. Lo strumento per contrastare queste pratiche, se le si vuole contrastare, esiste ed è il coordinamento fiscale internazionale. Fino a che lo Stato A e B non modificheranno, allineandole, le rispettive norme interne, non sarà possibile, per lo Stato di residenza dell’investitore, applicare un’imposizione compensativa su flussi reddituali in questione.


Conclusioni

La pianificazione fiscale aggressiva non viola, direttamente, alcuna norma scritta dei vari ordinamento tributari. Tuttavia, l’antigiuridicità di questo fenomeno, quindi, deriva dagli effetti economici che essa produce negli Stati coinvolti. Si tratta di effetti deleteri per gli interessi erariali degli Stati coinvolti che finiscono per subirne le conseguenze, che, indirettamente gravano sui contribuenti di quegli stessi Stati (e sulle stesse imprese).

Allo stesso tempo, il fenomeno non può essere arginato attraverso azioni unilaterali di un singolo Stato (in questo caso l’Italia). Occorre, infatti, l’introduzione di un coordinamento fiscale internazionale da cui trarre norme di comportamento valide a livello internazionale. Tutto questo, naturalmente, non deve violare un principio cardine e di civiltà come quello di libertà di stabilimento. Il tutto nel rispetto della Legge e minimizzando il proprio carico impositivo. Su questo il progetto BEPS portato avanti dall’OCSE è sicuramente un primo punto di riferimento, ma sicuramente siamo ancora lontani da un vero e proprio coordinamento fiscale a livello internazionale.

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Federico Migliorini
Federico Migliorinihttps://fiscomania.com/federico-migliorini/
Dottore Commercialista, Tax Advisor, Revisore Legale. Aiuto imprenditori e professionisti nella pianificazione fiscale. La Fiscalità internazionale le convenzioni internazionali e l'internazionalizzazione di impresa sono la mia quotidianità. Continuo a studiare perché nella vita non si finisce mai di imparare. Se hai un dubbio o una questione da risolvere, contattami, troverò le risposte. Richiedi una consulenza personalizzata con me.
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