L’art. 167, co. 5 lett. b) del TUIR prevede per il contribuente che voglia sottrarsi alla disciplina che riguarda le Controlled Foreign Companies (CFC) deve presentare preventivamente un interpello probatorio. La presentazione dell’interpello ha il vantaggio di non essere vincolante per il contribuente nel suo risultato, vincolando solo l’Amministrazione finanziaria in caso di esito positivo alla disapplicazione. Deve essere evidenziato, tuttavia, che l’eventuale esito positivo dell’interpello deve essere poi confermato in sede di accertamento, al fine di evitare l’emersione di una situazione (di fatto) diversa da quella descritta dal contribuente in sede di istanza.
L’aspetto da sottolineare con attenzione è che il contribuente che presenta interpello probatorio per la disapplicazione della normativa CFC non è vincolato dalla risposta dell’Agenzia delle Entrate. Infatti, tale documento non rientra tra quelli per cui è possibile presentare ricorso tributario (non rientrando la risposta ad interpello tra gli atti impugnabili dal contribuente). Infatti, la risposta ad interpello non rappresenta l’esercizio di un potere impositivo da parte dell’Amministrazione finanziaria. Solo in sede di accertamento, infatti, si manifesta la situazione concreta del contribuente e pertanto, solo in sede di accertamento è possibile, eventualmente impugnare l’avviso emesso dall’Agenzia delle Entrate. Al contrario, l’interpello, in caso di parere positivo, vincola il comportamento interno degli Uffici, che non possono contestare l’applicazione del comportamento adottato dal contribuente (se in linea con l’istanza proposta).
Da sempre sostengo la tesi secondo cui la conoscenza è la primo elemento di difesa, anche sotto il profilo della normativa tributaria. In alcuni casi, infatti, è solo attraverso una approfondita conoscenza della norma e dei provvedimenti collegati che è possibile individuare la strada corretta da seguire. In questo caso, l’analisi riguarda la disciplina dell’interpello probatorio che il contribuente può presentare per la disapplicazione della disciplina CFC per le società controllate estere.
La normativa CFC (cenni)
La disciplina giuridica che riguarda le Controlled Foreign Companies di cui all’art. 167 del TUIR, così come riscritta dall’art. 4 del D.Lgs. n. 142/18 (con decorrenza dal periodo di imposta successivo), prevede, anche in assenza di effettiva distribuzione, l’imputazione diretta dei redditi prodotti da imprese, società o enti a regime fiscale privilegiato in capo ai soggetti residenti che detengono partecipazioni di controllo in tali imprese, società o enti.
In buona sostanza, possiamo dire che la disciplina CFC riguarda società controllate estere, anche comunitarie, qualora congiuntamente si verifichino entrambi i seguenti requisiti:
- Tassazione effettiva nel Paese di localizzazione inferiore alla metà di quella applicabile in Italia;
- Conseguimento per oltre un terzo di proventi derivanti dai c.d. “passive income“.
Di fatto l’applicazione della normativa è legata ad una tassazione effettiva del reddito nel paese di localizzazione (c.d. “Stato della fonte“), minore della metà della tassazione diretta applicabile in Italia. Inoltre, è necessario che oltre un terzo dei proventi della società derivino da dividendi interessi e royalties. Al verificarsi di queste due condizioni, la società controllata estera è soggetta all’applicazione della normativa CFC sul socio controllante italiano. Sotto il profilo procedurale, al ricorrere delle condizioni di applicabilità del regime CFC, il socio controllante residente ha l’obbligo di segnalare nel quadro FC del modello Redditi il possesso di partecipazioni in CFC, fatti salvi i casi in cui la disciplina CFC (art. 167 co. 11 del TUIR):
- Sia stata applicata;
- Non sia stata applicata per effetto dell’ottenimento di una risposta favorevole all’interpello.
Da evidenziare che l’obbligo di segnalazione in dichiarazione rimane in essere anche qualora il socio residente abbia richiesto la disapplicazione mediante interpello ma abbia ricevuto un parere negativo dall’Amministrazione fiscale.
Per approfondire: “Controlled foreign companies (cfc): la normativa“.
Interpello probatorio per la disapplicazione della normativa CFC
La categoria dell’interpello probatorio costituisce una categoria molto ampia, nel cui contesto sono ricomprese tutte le tipologie di istanze tese a ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o sulla idoneità degli elementi probatori ai fini dell’adozione di un determinato regime fiscale. La richiesta può essere inoltrata solo nei casi espressamente previsti, ovvero quelli, appunto, contenenti l’esplicito richiamo all’interpello di cui alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 11, tra cui rientra l’art. 167 co. 5 del TUIR.
Accorre evidenziare, infatti, che l’esimente di cui all’art. 167 co. 5 del TUIR sulla disciplina CFC non deve essere dimostrata in sede di accertamento qualora il contribuente abbia ottenuto risposta positiva al relativo interpello. Resta fermo, tuttavia, il potere dell’Agenzia delle Entrate di controllare la veridicità e completezza delle informazioni e degli elementi di prova forniti in tale sede (art. 167 co. 12 del TUIR). Concretamente, l’Agenzia delle Entrate è tenuta a rispondere all’interpello probatorio entro il limite massimo 120 giorni (dalla notifica dell’istanza). In caso di mancata risposta entro tale termine si rende applicabile il principio del c.d. “silenzio-assenso“. L’interpello deve essere presentato dal socio residente che controlla le società estere oggetto di monitoraggio sulla disciplina. Qualora la catena societaria preveda più società intermedie residenti, l’interpello può essere presentato dalla controllante diretta dell’entità estera, dando però conto della struttura del gruppo.
Modalità di presentazione dell’interpello CFC
L’istanza per l’interpello CFC, richiede l’osservanza delle seguenti formalità:
- Deve essere recapitata alla Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate, competente in relazione al domicilio fiscale del contribuente;
- Può essere consegnata a mano ovvero spedita tramite servizio postale in plico raccomandato, senza busta, con avviso di ricevimento; non sono previsti metodi di presentazione alternativi, quali ad esempio il telefono, il fax e la posta elettronica;
- Deve essere indirizzata alla Agenzia delle Entrate, Direzione centrale normativa e contenzioso.
Le Direzioni regionali trasmettono alla Direzione centrale normativa e contenzioso, unitamente alla documentazione presentata dal contribuente, il proprio parere motivato circa l’idoneità della documentazione presentata a supporto delle cause di disapplicazione. Qualora l’istanza sia inviata ad un ufficio incompetente, quest’ultimo provvederà a trasmetterla tempestivamente alla Direzione regionale incaricata. Di tale trasmissione viene data contestualmente notizia al contribuente ed il termine di 120 giorni decorre dalla data di ricezione dell’istanza da parte dell’ufficio competente.
Se invece l’istanza risulta carente, la Direzione regionale può richiedere, una sola volta, ulteriori elementi istruttori, derivandone l’interruzione del termine per l’emanazione della risposta; detto termine inizierà nuovamente a decorrere dalla data di ricezione, da parte dell’ufficio, della documentazione integrativa, consegnata o spedita con le stesse modalità dell’interpello.
L’istanza di interpello deve contenere, a pena di inammissibilità:
- I dati identificativi del contribuente ed eventualmente del suo legale rappresentante; in particolare, occorre specificare nome e cognome o ragione o denominazione sociale, domicilio fiscale, codice fiscale;
- L’identificazione della controllata/partecipata estera per la quale si chiede la disapplicazione;
- L’indicazione del domicilio del contribuente o dell’eventuale domiciliatario presso il quale devono essere effettuate le comunicazioni dell’Amministrazione finanziaria;
- La documentazione idonea a dimostrare la sussistenza dei presupposti per la disapplicazione;
- La sottoscrizione del contribuente o del suo legale rappresentante.
A quest’ultimo riguardo, la mancata sottoscrizione può essere sanata se il contribuente provvede alla regolarizzazione dell’istanza entro 30 giorni dal ricevimento dell’invito da parte dell’Ufficio. A tal fine l’Agenzia delle Entrate invita il contribuente, anche tramite fax o posta elettronica, a recarsi presso i suoi uffici per la sottoscrizione. In tali circostanze l’interpello si considera regolarmente presentato alla data di sottoscrizione, a partire dalla quale decorre il termine di 120 giorni entro cui l’Agenzia è tenuta ad esprimere il suo parere. Se l’istanza è dichiarata inammissibile, la stessa non produce gli effetti tipici dell’interpello e, in particolare, l’eventuale silenzio osservato dall’Agenzia nei 120 giorni successivi alla sua proposizione, non implica il silenzio assenso. Nell’istanza vanno indicati anche eventuali recapiti di telefax o e-mail per una maggior rapidità nella comunicazione. In mancanza, gli uffici possono farne richiesta per iscritto.
La risposta dell’Agenzia delle Entrate
La risposta dell’Agenzia delle Entrate deve essere motivata e deve essere notificata al contribuente entro 120 giorni dalla data di presentazione dell’istanza di interpello (altrimenti si rende applicabile il silenzio assenso), che decorrono, nel caso di consegna diretta, dalla data in cui l’istanza di interpello è assunta al protocollo dell’ufficio e, in caso di spedizione a mezzo servizio postale, dalla data in cui è sottoscritto l’avviso di ricevimento della raccomandata con la quale è stata spedita l’istanza.
Per quanto riguarda la risposta ed i suoi effetti, deve essere evidenziato che la stessa:
- Vincola l’operato degli uffici, producendo effetti a decorrere dal periodo d’imposta per il quale il termine di presentazione della relativa dichiarazione dei redditi scade successivamente alla comunicazione della risposta da parte dell’Agenzia;
- Implica la disapplicazione dell’art. 167 del TUIR anche per i periodi di imposta successivi, a condizione tuttavia che le circostanze e i presupposti in base ai quali è stato fornito (anche implicitamente) parere favorevole da parte dell’Agenzia, non si siano nel frattempo modificati.
Pertanto, se tali circostanze si sono invece modificate, il soggetto residente è tenuto a riproporre istanza di interpello, rappresentando all’Agenzia delle Entrate tutti i mutamenti significativi nelle circostanze di fatto e di diritto, verificatisi successivamente alla presentazione dell’istanza.
La non obbligatorietà dell’interpello probatorio CFC
La presentazione dell’interpello probatorio è una possibilità, ma non un obbligo per il contribuente. Infatti, sulla base di quanto previsto dall’art. 167, co. 11 del TUIR, l’Agenzia delle Entrate, prima di procedere all’emissione di un avviso di accertamento legato alla contestazione di un’imposta evasa, deve notificare al soggetto interessato una comunicazione. Si tratta di un invito che ha l’obiettivo di richiedere al contribuente di fornire, nel limite di 90 giorni, le prove per la disapplicazione del regime CFC. Quindi, la dimostrazione della disapplicazione di questo regime può avvenire:
- Preventivamente, attraverso la presentazione di un interpello probatorio;
- Successivamente, in fase di accertamento, attraverso l’adesione all’invito da parte degli Uffici.
In questa seconda ipotesi l’Amministrazione finanziaria mette in atto una fase di contraddittorio con il contribuente. Questi, ha la possibilità di fornire la dimostrazione delle esimenti legate alla disapplicazione della disciplina. L’attivazione di questa fase di contraddittorio è importante, in quanto, potrebbe essere contestabile l’operato dell’Ufficio che emette direttamente un avviso di accertamento senza una preventiva fase di contraddittorio con il contribuente. Su questo aspetto è fondamentale evidenziare che l’Agenzia delle Entrate è chiamata a fornire specifica motivazione dell’inidoneità delle prove fornite dal contribuente all’interno del proprio avviso di accertamento. La mancanza di motivazione, infatti, potrebbe portare a conseguenze negative per la stessa Agenzia delle Entrate in caso di contenzioso.
Le problematiche operative dell’interpello CFC: il tax rate virtuale domestico
Stante quanto detto sinora, è evidente che qualsivoglia istanza di disapplicazione non può prescindere da una compiuta ed argomentata descrizione della fattispecie illustrata, che non risulti carente dal punto di vista logico argomentativo. In particolare, la complessità della materia è data dalla verifica di una delle condizioni di disapplicazione previste dall’art. 167 del TUIR. Faccio riferimento alla verifica del tax rate dell’entità estera (c.d. “tax rate virtuale“) nel paese in cui è localizzata che deve essere superiore alla metà di quella a cui il reddito sarebbe assoggettato in Italia (c.d. “tax rate effettivo“). Il tutto, a prescindere che la controllata sia localizzata in uno Stato dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo, ovvero in un Paese terzo.
La determinazione di questo confronto, nella pratica, appare spesso complessa. In particolare, il tax rate virtuale domestico deriva dal rapporto tra:
- L’imposta sul reddito che sarebbe dovuta dall’entità estera qualora questa fosse residente in Italia (rideterminato secondo le disposizioni domestiche sul reddito di impresa), al lordo di eventuali crediti per le imposte pagate all’estero; e
- L’utile ante imposte risultante dal bilancio di esercizio dell’entità estera.
Per quanto riguarda, invece, il tax rate effettivo domestico occorre fare riferimento all’aliquota IRES in vigore (non rilevando l’IRAP).
Interpello probatorio per la disapplicazione della disciplina CFC: consulenza fiscale
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