Articolo aggiornato al 01 ottobre 2024
La recente diffusione, accompagnata dal costante e rapido sviluppo, dei crypto-assets e delle relative attività genera non poche difficoltà per gli operatori del settore nell’individuare il corretto trattamento e inquadramento fiscale di questa nuova economia.
Per prima la prassi internazionale e poi l’amministrazione finanziaria italiana, sebbene con maggiore cautela, cercano di definire i principi generali che possano sopperire a tali incertezze.
In tal senso, l’Agenzia delle Entrate è intervenuta con recenti risposte ad Interpello (nr. 507 pubblicata il 12 ottobre 2022, nr. 508 pubblicata il 12 ottobre 2022 e nr. 515 pubblicata il 17 ottobre 2022), meglio analizzate nelle prossime righe, nelle quali dichiara apertamente di definire i principi di ordine generale finalizzati ad un corretto trattamento IVA degli utility token nonché ad un inquadramento dell’attività di mining nell’ambito IVA e delle imposte sui redditi.
Non si dubita dell’utilità dei contributi offerti dall’Agenzia delle Entrate che, attraverso le risposte a interpelli qualificatori, tenta di delineare un probabile inquadramento fiscale di questa nuova economia nell’assenza di una relativa disciplina ufficiale. Tuttavia, tali risposte sono verosimilmente anche da considerarsi come soluzioni solo possibili, elaborate da una corrente di tecnici, investiti peraltro di funzioni di controllo, piuttosto che come veri e propri principi generali di valenza assoluta e “legislativa” che, stante la carenza normativa e la complessità della materia, probabilmente dovranno essere definiti dalle più indicate e costituzionali organizzazioni mondiali (OCSE) e sedi legiferanti nazionali ed europee.
Gli utility token e il trattamento Iva
I token sono informazioni digitali all’interno di una blockchain, ovverosia un registro di dati condiviso e immutabile che attraverso algoritmi registra e trasmette dati in blocchi collegati tra loro da una catena digitale e la cui integrità è garantita da metodi crittografici. Esistono diverse tipologie di token a seconda della propria funzione attribuita all’emissione (token DeFi, token di governance, NFT, security token, utility token, etc.).
Gli utility token sono strumenti rappresentativi di diversi diritti che permettono al detentore di usufruire di prodotti e servizi dell’azienda emittente. Questi token sono molto diffusi nelle pratiche di Initial Coin Offerings (ICO) usate dalle start-up per attrarre finanziamenti. È, infatti, frequente che un’impresa, che debba finanziare un progetto, emetta token di un certo valore, conferendo ai soggetti aderenti il diritto di usufruire a condizioni vantaggiose dei servizi/prodotti offerti nell’ambito del progetto finanziato.
Non è raro che vengano anche scambiati nel mercato secondario fino al punto di perdere del tutto la loro funzione originaria, diventando una moneta virtuale o un puro strumento di investimento.
Come descritti gli utility token, quanto meno nella loro funzione originaria, sembrano avvicinarsi ai voucher, ma è realmente così?
Il buono corrispettivo (voucher) è uno strumento che deve essere obbligatoriamente accettato dal fornitore quale corrispettivo di una cessione di beni o prestazione di servizi e deve indicare i beni/servizi oggetto di cessione/prestazione e le identità dei potenziali fornitori. Tali elementi caratterizzanti sono permanenti e il buono corrispettivo non modifica la sua natura nel corso del tempo. Peraltro, i vantaggi di un voucher (sconti) hanno durata limitata che generalmente si esauriscono al primo utilizzo.
Differenti sono, invece, gli utility token. Innanzitutto, spesso i vantaggi, che sottostanno a questi strumenti offerti in fase di ICO, sono permanenti: ad esempio, come osservato dalla stessa Agenzia delle Entrate nella Risposta all’Interpello n. 507, i token venduti dall’Istante:
Oltretutto gli utility token, e più in generale i token, sono suscettibili di snaturarsi, nel senso di perdere la propria natura rappresentata dalla primaria funzione attribuitagli in fase di prima emissione. Si trasformano, di fatti, in moneta virtuale o puro strumento di investimento e non è possibile definire in fase di emissione quando un token modificherà la sua natura né tanto meno quale funzione andrà ad acquisire (criptovaluta o strumento di investimento). Non è insolito che la prestazione sottostante possa non concretizzarsi per diverse ragioni. In alcuni casi il mercato ne aumenta il valore al punto che gli utilizzatori sono indotti a sfruttarlo quale strumento di investimento piuttosto che per usufruire dei servizi/beni della società emittente. In altri casi, più semplicemente, il progetto non è ancora concluso o non è andato a buon fine.
Per tali ragioni, l’Agenzia delle Entrate nella citata Risposta nr. 507/2022 esclude l’assimilabilità degli utility token ai voucher in quanto:
- tali strumenti informatici potrebbero operare come criptovalute (assimilabile piuttosto ad un servizio di pagamento),
- non sono sufficientemente dettagliati i beni/servizi sottostanti al diritto che il token rappresenta né i potenziali fornitori erogatori,
- sono suscettibili di modificare la propria funzione in maniera del tutto indefinita e non programmabile.
Concludendo, quindi, si assimilano tali strumenti a documenti di legittimazione ai sensi dell’articolo 2002 del Codice Civile, la cui cessione non assume rilevanza ai fini IVA e il cui pagamento rappresenta “mera movimentazione di carattere finanziario”, mentre sarà soggetta all’imposta la successiva prestazione di servizi qualora il possessore utilizzerà il token per usufruire del servizio scontato.
L’attività di mining nella disciplina IVA e delle imposte sui redditi
Come anticipato precedentemente, la blockchain si può definire come una struttura che, attraverso l’impiego di algoritmi e scritture crittografate, registra e memorizza dati trasmessi in blocchi concatenati tra loro digitalmente.
Tale struttura rientra nel più ampio insieme delle DLT (Distributed Ledger Technology), ovvero innovativi registri informatici per la registrazione e la condivisione di dati in più archivi collettivamente mantenuti e controllati da una rete di server. I dati sono così protetti da attacchi informatici in quanto le informazioni sono verificate e validate dall’adozione di diversi protocolli accettati dai partecipanti.
Esistono diversi meccanismi di consenso con cui le DLT (incluse le blockchain) possono convalidare nuove operazioni o transazioni, tra i quali il proof-of-work (POW), termine che identifica un algoritmo utilizzato per confermare le transazioni e produrre nuovi blocchi della catena grazie all’attività di mining.
Nello specifico, il miner nell’ambito di una POW, partendo da un’informazione numerica, esegue calcoli con l’obiettivo di risolvere, prima di altri, il complesso algoritmo crittografico per poi condividere il proprio risultato con la rete e validare la transazione. Questa è un’attività che richiede un’ingente forza di calcolo con enormi consumi di energia, remunerata con criptovalute come una ricompensa (fee del miner) in quanto riservata esclusivamente a colui che, per primo, è riuscito a risolvere l’algoritmo e ad ottenere la convalida di un blocco dal sistema.
È proprio l’attività appena descritta alla base dell’estrema sicurezza della blockchain, e più in generale delle DLT basate sul proof-of-work. Migliaia di computer dalle più potenti forze di calcolo sono costantemente in forte competizione tra loro per risolvere per primi l’algoritmo crittografato ogni volta sempre più complesso e dispendioso nella risoluzione.
Considerando che il mining richiede ingenti investimenti in software e hardware, una costante attività di manutenzione sugli impianti nonché il sostenimento di elevati costi di energia, si può dire che tale attività sia rilevante ai fini IVA?
Secondo la posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate (interpelli nr. 508/2022 e 515/2022), la particolare forma di remunerazione del miner, nello specifico il “soggetto” che eroga la fee, consente di dedurre l’esclusione dalla rilevanza IVA del mining.
Infatti, il miner opera senza una richiesta da parte di un committente determinato, determinabile o individuabile, che, non appena risolve l’algoritmo, riceve la ricompensa generata dal sistema sotto forma di criptovalute e in maniera del tutto automatica.
Svolge, in altri termini, un’attività senza una controparte definita che gli abbia commissionato la prestazione, tale per cui la fee del miner è da intendersi, nell’ambito della disciplina dell’imposta sul valore aggiunto, fuori da un rapporto di scambio di servizi e, pertanto, la relativa attività fuori dal campo di applicazione IVA.
Per quanto concerne, invece, le imposte dirette, alla luce della risposta nr. 788/E del 2021, si ritiene trovino applicazione le disposizioni del TUIR che disciplinano le operazioni in valuta.
La fee del miner concorre, pertanto, alla formazione del reddito imponibile nell’esercizio in cui i servizi erogati dallo stesso si possono considerare ultimati (articolo 109, comma 2, TUIR), nulla rilevando ai fini delle imposte sui redditi che la controparte non sia identificabile.
È stato, inoltre, osservato che qualora il blocco fosse risolto per primo da un altro miner, i servizi offerti dal soggetto “perdente”, sebbene ultimati, non saranno remunerati, con una conseguente perdita su crediti deducibile alle condizioni poste dall’articolo 101, comma 5 del TUIR.
Non va dimenticata la differenza tra il valore fiscale iniziale e quello alla data di chiusura dell’esercizio, differenza che si intende realizzata fiscalmente ai sensi dell’articolo 110 del TUIR.
Infine, la fee del miner concorre altresì alla formazione del valore della produzione netta IRAP, costituendo ricavi dell’attività caratteristica, mentre sono escluse dalla base imponibile di tale imposta le oscillazioni di valore, sempreché non transitino in voci rilevanti o in assenza di presupposti per l’applicazione del principio di correlazione.