La sentenza n.16595 della Corte di Cassazione dello scorso giugno cambia, per la prima volta, l’orientamento giurisprudenziale sul c.d. principio dell’incasso giuridico, uniformandosi con la tesi da tempo sostenuta in dottrina.


La Suprema Corte, difatti, afferma che la rinuncia a un credito vantato dal socio nei confronti della società è riconducibile all’art.88, comma 4-bis del TUIR, e, pertanto, costituisce per la società sopravvenienza attiva rilevante per la sola parte che eccede il relativo costo fiscale, mentre l’ammontare della rinuncia si aggiunge al costo della partecipazione nel limite del valore fiscale del credito rinunciato, non implicando alcuna tassazione in capo al socio creditore.

Il principio dell’incasso giuridico

Il principio dell’incasso giuridico si basa sull’assunto che la rinuncia a un credito vantato da un socio nei confronti della società partecipata, inerente a redditi regolati dal principio di tassazione per cassa, implica un avvenuto incasso e contestuale utilizzo dello stesso a favore della debitrice, seppur fittiziamente e in assenza di effettive movimentazioni monetarie.

In altri termini, la rinuncia determina l’utilizzo dell’importo del credito e l’obbligo di sottoporlo a tassazione in capo al rinunciatario, sebbene non sia stato materialmente incassato.

Il novellato principio trova la sua più frequente applicazione nei seguenti casi di rinuncia a crediti relativi a:

  • Compensi amministratori e trattamenti di fine mandato;
  • Interessi attivi sui finanziamenti concessi da soci persone fisiche;
  • Dividendi per ricapitalizzare la società, sia da persone fisiche che da persone giuridiche.

Si tratta, quindi, di una fictio iuris di natura antielusiva riconducibile alla Circolare Ministeriale 73/e/1994 in cui viene sancito che la disciplina prevista dagli artt.61, co.5 e 55, co.4 del TUIR (ante riforma) viene:

estesa ai crediti di qualsiasi natura […]. Pertanto, tutti i crediti ai quali il socio rinuncia vanno portati ad aumento del costo della partecipazione, ai sensi dell’art. 61, comma 5, del Tuir, i quali, per la società non costituiscono sopravvenienze attive, così come dispone l’art. 55, comma 4, del Tuir. Naturalmente la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi   spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta di imposta”.

Principio poi confermato dall’amministrazione finanziaria anche nella più recente risposta ad interpello n.124/E del 2017.

Per quanto concerne, invece, la posizione della giurisprudenza, questa ha, sino ad oggi, avvalorato la tesi appena esposta, ritenendo che il possesso di un credito e la possibilità di disporne per patrimonializzare la società comporti, da un lato, il suo conseguimento, seppur in assenza di un sostanziale incasso, e, dall’altro, l’arricchimento della società partecipata (cfr. Sentenza della Corte di Cassazione n.1335/2016, n.2057/2020 e n.12222/2022). 

Trova, quindi, la sua giustificazione nel porre rimedio al salto di imposta generato dall’asimmetria di imposizione tra socio e società che si verificherebbe:

  • Nella possibilità della società di dedurre per competenza il costo e di non subire alcuna tassazione in caso di rinuncia al credito;
  • Nell’assenza di tassazione in capo al creditore che, non incassando il credito, beneficia comunque dell’incremento del valore fiscale della partecipazione detenuta.

Il contrasto con i principi generali dell’ordinamento tributario

La dottrina ha manifestato il suo dissenso alle posizioni assunte dall’amministrazione finanziaria e dalla giurisprudenza, rilevando un contrasto con i principi generali del nostro ordinamento tributario e, più precisamente, la violazione dei principi sia costituzionali (riserva di legge e capacità contributiva) che di diritto sostanziale.

In particolare, tale contrasto emerge in seguito alle modifiche apportare all’art. 88 del TUIR con la Legge 14 settembre 2015, n.147 che ha introdotto il comma 4-bis. Tale norma definisce, infatti, come sopravvenienza attiva la rinuncia a un credito da parte del socio per la sola parte eccedente il relativo valore fiscale e stabilisce altresì che, nei casi di conversione del credito in partecipazione, il valore fiscale della partecipazione venga assunto pari al valore fiscalmente riconosciuto dello stesso credito, al netto delle relative perdite eventualmente deducibili. 

Stante la posizione della dottrina viene meno il presupposto impositivo che giustifichi il principio dell’incasso giuridico. Il presupposto, infatti, si realizza quando, in assenza di un incasso materiale, la rinuncia sia “collegata a una controprestazione di qualsiasi natura (in forma di beni o servizi differenti dal denaro), ovvero quando il credito stesso sia utilizzato per estinguere obbligazioni facenti capo all’amministratore” (cfr. norma di comportamento AIDC 201/2018). Pertanto, la mera remissione del credito non può determinare un’automatica presunzione di avvenuto incasso del relativo importo da parte del socio creditore.

La sentenza della Corte di Cassazione n.16595/2023

Il punto di svolta arriva con la sentenza n.16595/2023 nella quale la Suprema Corte afferma il seguente principio:

“in tema di imposte sui redditi di capitale – in ragione di quanto previsto dall’art. 88, comma 4-bis, art. 94, comma 6, art. 101, comma 5, t.u.i.r. a seguito delle modifiche di cui alla L. 14 settembre 2015, n. 147, art. 13 – la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, al credito avente ad oggetto interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata, non comporta l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26, comma 5, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d’imposta, avendo le nuove disposizioni rimediato all’asimmetria fiscale o “salto d’imposta” di cui al precedente regime”.

Nel caso di specie, il socio (società di diritto lussemburghese) ha rinunciato al credito, costituito da quota capitale relativo ad un mutuo e dagli interessi maturati, vantato nei confronti della società partecipata. 

In un primo momento, la controllata ha prudenzialmente operato la ritenuta d’imposta ai sensi dell’art.26 co.5 DPR 600/73 e, successivamente, presentato istanza di rimborso in quanto reputava non dovuta tale ritenuta, dal momento che la rinuncia della creditrice non ha comportato la corresponsione dell’importo dovuto. L’amministrazione finanziaria, invece, ritenendo corretto considerare la rinuncia alla stregua dell’incasso giuridico, ha rifiutato l’istanza di rimborso.

La fictio iuris dell’incasso giuridico, secondo la Cassazione, poteva essere giustificata nel previgente regime fiscale in cui vi era un rischio di “salto d’imposta”, ma che ora, con le nuove disposizioni vigenti, risulta contraria al principio di legalità e capacità contributiva.

Infatti, con le successive modifiche al TUIR viene meno l’asimmetria fiscale e il correlato rischio di salto di imposta. La rinuncia del credito trova ora collocazione nel comma 4-bis dell’art. 88 del TUIR che la considera come sopravvenienza attiva per la parte eccedente il relativo valore fiscale.

Peraltro, la Cassazione osserva che dal lato del creditore, per effetto degli artt. 94, comma 6, e 101, comma 7 TUIR, “l’ammontare della rinuncia al credito che si aggiunge al costo della partecipazione è nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia; che la rinuncia non è ammessa in deduzione e che il relativo ammontare si aggiunge al costo della partecipazione sempre nei limiti del valore fiscalmente riconosciuto del credito”. 

Pertanto, la rinuncia ad un credito con valore fiscale pari a zero, come per i crediti connessi ad un reddito tassato per cassa, non comporta alcun incremento del valore fiscalmente riconosciuto in capo alla partecipazione e determina l’integrale tassazione in capo alla società partecipata come sopravvenienza attiva.

La sentenza assume un ruolo importante in quanto sancisce una modifica della linea di pensiero adottato dalla giurisprudenza nel corso degli anni, conformandosi a quanto sostenuto dalla dottrina.

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Salvatore Guarrella
Dottore Commercialista laureato a pieni voti presso l’Università Cattolica di Milano, è Manager in Proactiva nella divisione Corporate & Tax specializzato nella progettazione di processi di riorganizzazione societaria/di gruppi, passaggi generazionali e operazioni straordinarie in generale, focalizzandosi prevalentemente nella pianificazione fiscale e nell’analisi degli aspetti societari. Si occupa, inoltre, di valutazioni di aziende e di beni immateriali e completa l’esperienza acquisita la consulenza ordinaria in materia fiscale e societaria.

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