Regime impatriati: rientro da aspettativa con regole sui 3 anni

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L’Agenzia delle Entrate, con la Risposta n. 317/2025, ribalta il precedente orientamento sull’aspettativa non retribuita: accesso consentito al nuovo regime impatriati, ma il calcolo degli anni di residenza estera dipende dal “test del datore di lavoro“.

L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato il 23 dicembre 2025 la Risposta n. 317/2025, fornendo chiarimenti cruciali sul “nuovo regime agevolativo a favore dei lavoratori impatriati” introdotto dalla Riforma Fiscale Internazionale (D.Lgs. 209/2023). Il documento affronta il caso frequente dei dipendenti che, pur mantenendo formalmente il posto in Italia tramite l’istituto dell’aspettativa non retribuita, si trasferiscono all’estero per lavorare con un altro soggetto.

La novità sostanziale riguarda l’abbattimento del divieto che vigeva nel vecchio regime: il rientro presso lo stesso datore di lavoro dopo l’aspettativa non preclude più l’agevolazione. Tuttavia, l’Agenzia introduce un meccanismo a doppio step per determinare se il requisito di permanenza estera debba essere quello ordinario (3 anni) o quello “penalizzante” (6 o 7 anni) previsto per i trasferimenti infragruppo.

Cosa prevede la Risposta n. 317/2025: il “Test del Datore”

La Risposta n. 317/2025 analizza l’art. 5 del D.Lgs. 209/2023, confermando che il nuovo regime si applica anche in ipotesi di continuità lavorativa, a patto di rispettare requisiti di permanenza all’estero più lunghi. Nello specifico, come chiarito dall’Agenzia, per stabilire se servono 3, 6 o 7 anni di residenza estera, bisogna verificare la coincidenza tra i datori di lavoro coinvolti nella catena di trasferimento.

Secondo il documento di prassi, il test fondamentale è verificare se, al rientro in Italia, il contribuente lavorerà per lo stesso datore di lavoro (o soggetto del gruppo) per il quale ha lavorato all’estero.

  • Se NO (datori diversi): Il requisito di permanenza all’estero rimane quello ordinario di tre periodi d’imposta.
  • Se SÌ (stesso datore/gruppo): Scatta l’estensione a 6 o 7 anni (a seconda che si fosse già lavorato per loro in Italia prima dell’espatrio).

Nel caso esaminato, l’istante rientrava presso la banca italiana (da cui era in aspettativa) dopo aver lavorato all’estero per un soggetto terzo. L’Agenzia ha confermato che, non essendoci coincidenza tra il datore estero e quello del rientro, bastano i 3 anni, nonostante il ritorno al “vecchio” posto.

Cosa cambia rispetto alla normativa precedente (aspettativa sbloccata)

La svolta rispetto al passato è netta. Sotto il vigore del vecchio” regime impatriati (art. 16, D.Lgs. 147/2015), l’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 33/E del 2020, aveva stabilito una preclusione assoluta per chi rientrava a seguito di aspettativa non retribuita. La logica era che il rapporto di lavoro non si fosse mai “interrotto” sostanzialmente.

Oggi, la Risposta n. 317/2025 dichiara superato tale orientamento. L’Amministrazione afferma esplicitamente che il nuovo art. 5 “non esclude dal suo campo di applicazione i lavoratori collocati in aspettativa“. La continuità con la posizione precedente rileva esclusivamente per calcolare l’anzianità di residenza estera necessaria, ma non inibisce l’accesso al beneficio.

Implicazioni operative: analisi della “coincidenza

Il punto critico per i professionisti e le aziende è la corretta mappatura dei soggetti coinvolti. Non basta guardare al datore di lavoro “di partenza” e “di arrivo“. La Risposta 317/2025 impone di guardare al datore di lavoro estero.

Il paradosso vantaggioso: Un dipendente in aspettativa dalla “Azienda Italia“, che va all’estero a lavorare per la “Azienda Estera” (non collegata ad A), e poi rientra in “Azienda Italia“, gode del requisito ridotto (3 anni). Perché? Perché non c’è continuità tra il datore durante l’espatrio e quello post rientro. Il fatto che fosse in aspettativa dall’Azienda Italia diventa irrilevante ai fini del computo degli anni.

Attenzione

Il concetto di “stesso gruppo” è molto ampio. Ai sensi dell’art. 5, comma 2 del D.Lgs. n. 209/2023, si considerano appartenenti allo stesso gruppo i soggetti controllati, controllanti o sottoposti a comune controllo ai sensi dell’art. 2359 c.c.. Se l’azienda estera fosse stata una sussidiaria della banca italiana, l’istante avrebbe necessitato di 7 anni di permanenza estera.

Nota operativa dalla mia esperienza professionale

Dalla mia esperienza nell’ambito delle agevolazioni sul rientro in Italia, evidenzio un aspetto pratico spesso sottovalutato: la prova della discontinuità all’estero. Nel caso trattato dalla Risposta 317/2025, l’Agenzia assume “acriticamente” che il datore estero sia terzo rispetto alla banca italiana.

Nella realtà operativa, è fondamentale costruire un dossier probatorio prima del rientro:

  1. Visure e organigrammi: Dimostrare che tra la società estera e quella italiana non vi sono vincoli ex art. 2359 c.c.
  2. Contratti di lavoro: Il contratto estero deve essere genuino e autonomo, non un semplice distacco mascherato.
  3. Durata effettiva: I tre periodi d’imposta devono essere ben documentati con elementi probatori. Se ci si trasferisce a metà anno, quel periodo potrebbe non contare come intero periodo d’imposta ai fini della residenza fiscale (per potenziale presenza di elementi di collegamento con l’Italia).

Un errore comune è pensare che l’aspettativa sia “neutra“. Come visto, è neutra per l’accesso, ma se l’esperienza estera è avvenuta infragruppo, l’asticella si alza drasticamente a 6 o 7 anni, rendendo di fatto inapplicabile il regime per la maggior parte dei distacchi classici.

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La nuova interpretazione dell’Agenzia sull’aspettativa apre enormi opportunità, ma il calcolo dei periodi d’imposta e la verifica dei collegamenti societari (art. 2359 c.c.) nascondono insidie. Sbagliare il conteggio degli anni o la qualificazione del gruppo può portare alla revoca del beneficio e sanzioni pesanti.

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Domande frequenti

Sono in aspettativa da 4 anni e ho lavorato per un concorrente estero. Posso rientrare col regime agevolato?

Sì. Secondo la Risposta 317/2025, se il datore di lavoro estero non appartiene allo stesso gruppo del tuo datore italiano (presso cui rientri), il requisito di permanenza è di soli 3 periodi d’imposta. Il fatto di essere in aspettativa non ti penalizza.

Cosa succede se ho lavorato all’estero per una filiale della mia azienda italiana?

In questo caso, essendoci appartenenza allo stesso gruppo, si applica il requisito temporale rafforzato. Se avevi già lavorato in Italia per il gruppo prima di partire, ti serviranno 7 periodi d’imposta di residenza estera per accedere al regime al tuo rientro.

Il regime si applica fin da subito al rientro?


Sì, l’agevolazione (detassazione al 50% entro il limite di 600.000 euro) si applica a decorrere dal periodo d’imposta in cui avviene l’acquisizione della residenza fiscale in Italia , purché si mantenga la residenza in Italia per almeno 4 anni.

Riferimenti normativi

  • Risposta all’interpello n. 317/2025 del 23/12/2025
  • Art. 5, D.Lgs. 27 dicembre 2023, n. 209 (Nuovo regime impatriati)
  • Art. 2359 Codice Civile (Definizione di controllo e collegamento)
  • Circolare n. 33/E del 28 dicembre 2020 (Prassi previgente superata)
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Federico Migliorini
Federico Migliorinihttps://fiscomania.com/federico-migliorini/
Dottore Commercialista, Tax Advisor, Revisore Legale. Aiuto imprenditori e professionisti nella pianificazione fiscale. La Fiscalità internazionale le convenzioni internazionali e l'internazionalizzazione di impresa sono la mia quotidianità. Continuo a studiare perché nella vita non si finisce mai di imparare. Se hai un dubbio o una questione da risolvere, contattami, troverò le risposte. Richiedi una consulenza personalizzata con me.
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