La Corte di Cassazione con la sentenza n. 16471/2025 stabilisce definitivamente che negli accertamenti da movimentazioni bancarie non giustificate i ricavi presunti non sono comprensivi di IVA. Un principio che ribalta le recenti decisioni di merito e offre maggiore certezza agli operatori.
Quando l’Agenzia delle Entrate procede ad accertamenti fondati su movimentazioni bancarie non giustificate (indagini finanziarie), sorge sempre la questione cruciale: i ricavi presunti devono considerarsi al lordo o al netto dell’IVA? La risposta a questa domanda ha implicazioni decisive sia per il calcolo dell’imposta sul valore aggiunto che per quella sui redditi.
La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 16471 del 18 giugno 2025, ha finalmente fatto chiarezza su una questione che aveva visto orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di merito. Il principio stabilito è netto: negli accertamenti analitico-induttivi derivanti da movimentazioni bancarie non giustificate, i ricavi presunti non possono ritenersi già comprensivi dell’IVA.
Questa decisione assume particolare rilevanza pratica per tutti i professionisti che si confrontano quotidianamente con verifiche fiscali basate su indagini finanziarie, offrendo finalmente un orientamento stabile e definitivo della Suprema Corte.
Indice degli Argomenti
La genesi del contrasto giurisprudenziale
Il contrasto interpretativo era nato dall’applicazione di un precedente della Corte di Giustizia Europea. La sentenza del 1° luglio 2021, causa C-521/19, aveva infatti stabilito che quando un soggetto passivo commette evasione fiscale senza indicare l’operazione all’amministrazione tributaria, né emettere fattura, né dichiarare i redditi, la ricostruzione degli importi deve intendersi come prezzo già comprensivo di IVA.
Questo principio aveva trovato applicazione in diverse decisioni di merito (C.G.T. II Liguria 14 febbraio 2025 n. 122/2/25 e C.G.T. II Lazio 19 febbraio 2024 n. 1109/12/24 che avevano accolto le istanze dei contribuenti di scorporare l’IVA dagli importi accertati).
La confusione interpretativa aveva creato un panorama giurisprudenziale frammentato, con orientamenti opposti che rendevano difficile la pianificazione delle strategie difensive e l’uniformità nell’applicazione del diritto tributario.
L’analisi della Cassazione
La Corte di Cassazione ha chiarito che il precedente comunitario non è direttamente applicabile al sistema italiano per due ragioni fondamentali. Primo, il caso europeo riguardava una fattispecie in cui la controparte era identificata, circostanza che non ricorre negli accertamenti presuntivi da indagini bancarie. Secondo, il nostro ordinamento prevede specifici meccanismi di salvaguardia della neutralità dell’imposta attraverso l’articolo 60, comma 7, del DPR n. 633/72.
Quest’ultima norma consente infatti al soggetto passivo di rivalersi nei confronti della controparte per l’IVA pagata all’Erario, purché la controparte sia individuabile. Come chiarito dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 35 del 17 dicembre 2013, la rivalsa è esclusa quando l’imposta recuperata non sia riferibile a specifiche operazioni effettuate nei confronti di soggetti determinati, come appunto accade negli accertamenti induttivi.
Le implicazioni pratiche della decisione
Dal punto di vista operativo, questa pronuncia comporta conseguenze significative per la gestione delle verifiche fiscali. Quando ci troviamo di fronte ad un accertamento basato su movimentazioni bancarie non giustificate, non potremo più sostenere automaticamente che gli importi accertati debbano essere decurtati dell’IVA.
La strategia difensiva dovrà necessariamente concentrarsi sulla dimostrazione che le movimentazioni in questione non si riferiscono ad operazioni imponibili, onere che grava sul contribuente secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale.
È fondamentale comprendere che questo principio si applica specificamente agli accertamenti analitico-induttivi fondati su presunzioni legali relative. Diversa potrebbe essere la valutazione in caso di accertamenti puramente induttivi ex articolo 39, comma 2, del DPR n. 600/73, dove la ricostruzione del reddito avviene attraverso parametri esterni all’attività del contribuente.
Distinzione tra accertamento analitico-induttivo e induttivo puro
È fondamentale rimarcare la differenza tra l’accertamento analitico-induttivo, oggetto della sentenza in esame, e quello “puro” o “extracontabile“. Il primo metodo, disciplinato dall’articolo 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600/73, parte dalla contabilità del contribuente, ritenuta formalmente corretta, per poi integrarla con elementi presuntivi come i dati bancari, al fine di rettificare singoli componenti di reddito. L’accertamento induttivo puro, previsto dal secondo comma del medesimo articolo, si applica invece quando le scritture contabili sono assenti, false o del tutto inattendibili. In tale ultimo scenario, la ricostruzione del reddito avviene tramite “sintomi” e parametri esterni all’attività , e la giurisprudenza ha talvolta mostrato un’apertura maggiore verso una valutazione complessiva e forfettaria della posizione del contribuente, inclusa una potenziale considerazione implicita dell’IVA nel reddito complessivamente ricostruito, anche se la nuova sentenza potrebbe influenzare negativamente anche queste fattispecie.
La natura dell’onere probatorio a carico del contribuente
La sentenza consolida il principio secondo cui l’onere della prova per superare la presunzione legale legata alle movimentazioni bancarie ricade interamente sul contribuente. Risulta quindi strategico non solo concentrarsi sulla prova contraria ma anche comprenderne la natura e la portata richiesta dalla giurisprudenza. Il contribuente dovrà fornire una prova analitica, e non generica, per ogni singola movimentazione contestata. Questo significa produrre documentazione specifica come contratti di finanziamento tra privati con data certa, atti di donazione, documenti relativi a vendite di beni personali, oppure estratti conto che dimostrino la natura di “giroconti” tra diversi conti correnti intestati al medesimo soggetto. La semplice affermazione che le somme derivino da liberalità o da redditi esenti, senza un adeguato supporto documentale, è quasi sempre considerata insufficiente dai giudici tributari a vincere la presunzione dell’Amministrazione Finanziaria.
Il riconoscimento forfetario dei costi
Un aspetto di particolare rilievo della sentenza riguarda il riconoscimento dei costi correlati ai ricavi accertati. La Cassazione ha accolto il secondo motivo di ricorso, stabilendo che anche negli accertamenti analitico-induttivi da movimentazioni bancarie è necessario riconoscere una deduzione forfetaria dei costi presunti.
Questo principio si basa sull’interpretazione adeguatrice fornita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 10 del 31 gennaio 2023, che ha chiarito come sia costituzionalmente illegittimo escludere il riconoscimento di un’incidenza percentuale di costi presunti a fronte di maggiori ricavi accertati.
La decisione della Suprema Corte richiama espressamente le sentenze n. 5586/2023 e n. 18653/2023, che avevano già affermato questo principio, creando un orientamento consolidato che i giudici di merito non potranno più disattendere.
Profili critici: articolo 51, comma 2, n. 2 del DPR n. 633/72
Un aspetto che merita particolare attenzione, e che la stessa Cassazione non ha approfondito, riguarda l’interpretazione dell’articolo 51, comma 2, n. 2, del DPR n. 633/72. Questa norma, che prevede la presunzione legale relativa per l’IVA analoga a quella delle imposte sui redditi, fa riferimento ai soli versamenti e non anche ai prelevamenti.
La giurisprudenza di merito aveva già evidenziato questo aspetto, sostenendo che i prelevamenti non giustificati non dovrebbero mai dare luogo a presunte operazioni imponibili non fatturate.
Questa considerazione apre uno spiraglio interpretativo che potrebbe essere sfruttato nelle strategie difensive, distinguendo tra accertamenti basati su versamenti (dove la presunzione opera pienamente) e quelli fondati su prelevamenti (dove la presunzione potrebbe non trovare applicazione).
L’indeducibilità dell’IVA ai fini IRES
La sentenza conferma anche l’applicazione dell’articolo 99, comma 1, del TUIR, che stabilisce l’indeducibilità delle imposte per le quali è prevista la rivalsa. Questo principio comporta che l’IVA accertata non può essere dedotta ai fini della determinazione del reddito d’impresa.
Tuttavia, rimane sempre aperta la possibilità per il contribuente di recuperare l’IVA attraverso il meccanismo della rivalsa previsto dall’articolo 60, comma 7, del DPR n. 633/72, purché ne sussistano i presupposti di fatto e di diritto. Questo aspetto assume particolare rilevanza nella pianificazione delle strategie post-accertamento, dove la tempestiva attivazione della rivalsa può consentire il recupero dell’imposta versata.
L’impossibilità di esercitare la rivalsa
Il meccanismo della rivalsa costituisce la chiave di volta per garantire la neutralità dell’IVA. La Corte di Cassazione, nel negare lo scorporo, ha implicitamente protetto tale neutralità . Se l’IVA fosse considerata già inclusa nei ricavi presunti, il contribuente accertato non avrebbe alcun incentivo a identificare la controparte per esercitare la rivalsa. L’Erario incasserebbe un’imposta senza che il cessionario o committente finale (il cliente) possa portarla in detrazione, e allo stesso tempo il soggetto accertato non subirebbe l’onere di recuperarla. Tale situazione creerebbe una distorsione del sistema, trasformando l’IVA in un costo occulto. La decisione della Suprema Corte riafferma quindi che l’onere dell’imposta deve essere gestito attraverso i canali ordinari: accertamento, pagamento all’Erario e, ove possibile, rivalsa sul cliente finale, che a sua volta potrà esercitare la detrazione.
Tabella comparativa
Per fornire un quadro d’insieme si propone la seguente tabella che riassume le differenze operative e strategiche introdotte dalla pronuncia della Corte di Cassazione.
Aspetto dell’accertamento | Orientamento pre-sentenza (giudici di merito) | Orientamento post-sentenza (Cassazione n. 16471/2025) |
---|---|---|
Qualificazione dei ricavi Presunti | Gli importi potevano essere considerati “IVA inclusa”, sulla scia di una interpretazione della giurisprudenza europea. | I ricavi presunti sono da considerarsi imponibili ai quali l’IVA deve essere aggiunta. Lo scorporo non è ammesso. |
Calcolo dell’IVA da versare | L’IVA veniva calcolata “scorporando” l’aliquota dall’importo del versamento bancario non giustificato. | L’IVA si calcola applicando l’aliquota di riferimento direttamente sull’importo del versamento accertato come ricavo. |
Strategia difensiva principale | Oltre a contestare la natura imponibile, si puntava in subordine a chiedere lo scorporo dell’IVA dai ricavi. | La difesa deve concentrarsi quasi esclusivamente sul dimostrare che le movimentazioni non costituiscono operazioni imponibili. |
Riconoscimento costi | L’approccio non era uniforme; spesso il riconoscimento dei costi era negato se non specificamente provati. | Viene confermato l’orientamento consolidato che garantisce al contribuente il diritto a una deduzione forfettaria dei costi presunti. |
Gestione dei prelevamenti (ai fini IVA) | La questione era dibattuta, ma spesso i prelevamenti venivano assimilati ai versamenti. | La sentenza non approfondisce, ma emerge con forza la tesi difensiva che la presunzione IVA valga solo per i versamenti, come da art. 51, DPR 633/72. |
Deduzione dell’IVA ai fini IRES/IRPEF | Indipendentemente dallo scorporo, l’IVA non era deducibile in quanto imposta per cui è prevista la rivalsa. | Viene confermata l’assoluta indeducibilità dell’IVA accertata dal reddito d’impresa o di lavoro autonomo. |
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La pronuncia della Cassazione n. 16471/2025 segna un punto fermo in una materia caratterizzata da incertezze interpretative. Il principio stabilito è chiaro: negli accertamenti da indagini finanziarie, i ricavi presunti non sono comprensivi di IVA, salvo che il contribuente non riesca a dimostrare il contrario.
Per i professionisti, questo orientamento impone una revisione delle strategie difensive, che dovranno concentrarsi maggiormente sulla contestazione della natura imponibile delle operazioni piuttosto che sulla questione dello scorporo dell’IVA. Rimane invece confermata la possibilità di ottenere il riconoscimento forfetario dei costi, un principio che può attenuare significativamente l’impatto economico degli accertamenti.
La decisione della Suprema Corte, pur chiudendo una controversia interpretativa, apre nuovi spunti di riflessione, particolarmente in relazione alla distinzione tra versamenti e prelevamenti nell’applicazione delle presunzioni legali relative. Si tratta di aspetti che la futura giurisprudenza dovrà necessariamente chiarire per garantire piena certezza del diritto in un settore così delicato del contenzioso tributario. Nel frattempo, se hai bisogno di assistenza in merito ad accertamenti bancari, possiamo assisterti attraverso la collaborazione con uno studio legale tributario. In questo modo potrai risolvere i tuoi dubbi e nel caso essere affiancato nel migliore dei modi per affrontare l’iter del controllo.
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