La reintegrazione del lavoratore è una forma di tutela importante che il nostro ordinamento ha creato per proteggere il lavoratore illegittimamente licenziato. Consiste nell’obbligo in capo al datore di lavoro di riammettere il dipendente in azienda assegnandogli le mansioni che svolgeva al momento dell’interruzione dell’attività lavorativa. 

Lo Statuto dei Lavoratori prevedeva questa forma di tutela qualora venissero rispettati dei criteri dimensionali dell’azienda, infatti era applicata a tutti i lavoratori assunti presso datori di lavoro che superano specifiche soglie dimensionali: unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 in caso di imprenditore agricolo o più di 60 dipendenti totali

A seguito delle riforme del mercato del lavoro, la tutela della reintegrazione del lavoratore è prevista in due dei quattro differenti regimi di tutela. Per i lavoratori assunti a tempo indeterminato, trasformati o qualificati a partire dal 7 Marzo 2015 il legislatore ha introdotto un nuovo regime di tutela per i licenziamenti illegittimi, limitando la discrezionalità del giudice, prevedendo delle indennità risarcitorie crescenti in ragione dell’anzianità di servizio. 

Tale disciplina trova applicazione anche per i contratti stipulati prima del 7 Marzo 2015 da parte di aziende che dopo tale data hanno integrato il requisito occupazionale dei 15 dipendenti di cui all’art. 18 della L.300/70. 

La nuova disciplina è contenuta nel D.Lgs. 23/2015 per cui quando si parla di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (CATUC) si indica una nuova declinazione del contratto a tempo indeterminato che incentiva i datori di lavoro a ricorrere a tali tutele per la maggior prevedibilità di un eventuale ricorso giudiziale o di un lavoratore licenziato. 

Di seguito riportiamo le varie forme di tutela del lavoratore in caso di licenziamento nullo, illegittimo, discriminatorio, ingiustificato o inefficace a seconda dei regimi sanzionatori previsti, prima e dopo il 2015. 

La reintegrazione del lavoratore prevista dall’art. 18 della Legge 300/70 

Quando incorriamo in casi di licenziamento nullo, discriminatorio oppure comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità, o in caso di licenziamento inefficace per vizi formali o procedurali, ci troviamo di fronte alle ipotesi di licenziamento nullo, se dichiarato tale dal giudice ed in tal caso il datore di lavoro deve reintegrare il dipendente nel posto di lavoro pagando una somma a titolo di risarcimento del danno subito dal momento della cessazione del lavoro fino alla reintegrazione sul posto stesso, provvedendo inoltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo che va dal licenziamento al reintegro. 

Ci troviamo in questo caso, di fronte ad una forma di tutela reintegratoria piena, dove il lavoratore a seguito di un licenziamento illegittimo ha la possibilità di rivalersi e ottenere in maniera immediata il reintegro sul posto di lavoro. 

Ci sono casi in cui il lavoratore si rifiuti di tornare sul posto di lavoro. Sono sempre più frequenti i casi in cui il rapporto di fiducia che intercorre tra il datore di lavoro e il lavoratore viene meno, portando il lavoratore ad una scelta diversa. 

In alternativa ai casi sopra esposti, nel caso in cui il lavoratore si rifiuta di tornare in azienda, può chiedere al datore di lavoro, entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenze, la corresponsione di un’indennità sostitutiva della reintegrazione, pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del contratto. 

Resta ancora poco chiaro per il datore di lavoro se nell’indennità sostitutiva vanno ricompresi anche il versamento dei contributi previdenziali o assistenziali, vige per il momento una circolare dell’INPS, nella quale si afferma che i contributi non sono dovuti dal momento che la somma non viene corrisposta a titolo di retribuzione, ma bensì a titolo di risarcimento del danno. 

Ci sono altre forme di tutela in cui si prevede il reintegro del lavoratore, si tratta di tutele attenuate rispetto a quelle sopra indicate, ma che permettono comunque di proteggere il lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. 

Nei casi di licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo per insussistenza del fatto contestato o in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo se il fatto è manifestamente infondato, è previsto a seguito di sentenza del giudice, l’obbligo per il datore di lavoro al reintegro del lavoratore e al pagamento di una somma di denaro come forma di risarcimento che però non dovrà superare le 12 mensilità. 

Il datore di lavoro versa anche in questo caso i contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione effettiva.

Sia nella forma di tutela piena che nella forma di tutela attenuata è prevista la possibilità per il lavoratore di poter decidere, in alternativa alla reintegrazione nel posto di lavoro, di ricevere un’indennità sostitutiva della reintegra. 

La reintegrazione del lavoratore prevista dal D.Lgs. 23/2015 

Il d.lgs 23/2015 ha introdotto un nuovo regime di tutela per i contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti prevedendo la reintegrazione del lavoratore solo in determinate ipotesi previste dall’ordinamento: 

  • licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della legge n. 300 del 1970 (art. 2, co. 1); 
  • licenziamento nullo per espressa previsione di legge (art. 2, co. 1);
  • licenziamento inefficace perché intimato in forma orale (art. 2, co. 1, ult. parte);
  • licenziamento rispetto al quale il giudice accerti il difetto di giustificazione per 
  • motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (art. 2, co. 4);
  • licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa rispetto al quale sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, co. 2). 

Come nel caso delle tutele previste prima della riforma del 2015 anche in questi casi al lavoratore è attribuita la facoltà di sostituire la reintegrazione nel posto di lavoro con un ulteriore indennizzo economico, pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, purché effettui la relativa richiesta entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione. 

L’invito del datore di lavoro a riprendere servizio 

Dopo che il giudice emana la sentenza per la quale obbliga il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore in azienda, il datore deve riattivare il rapporto lavorativo con il lavoratore, comunicando allo stesso di dover tornare in azienda. 

La comunicazione non necessita di alcuna forma o di comunicazione pervenuta personalmente dal datore di lavoro, questa può avvenire anche per il tramite del difensore, con conseguente obbligo per il lavoratore di presentarsi sul posto di lavoro entro il termine di 30 giorni

La disponibilità del datore di lavoro al reintegro del lavoratore deve avere il carattere della concretezza e della specificità, questo perché se il lavoratore viene materialmente inserito in azienda, ma venendo meno il reinserimento vero e proprio nel ciclo produttivo, si ritiene che ci sia un mancato reinserimento, conseguentemente il rifiuto del dipendente di presentarsi a lavoro non si identifica in una rinuncia alla reintegra e il successivo licenziamento deve ritenersi illegittimo. 

Quando il dipendente ritorna sul posto di lavoro, dovrà riprendere le mansioni svolte al momento della cessazione, andando a ripristinare la situazione iniziale, essendo irrilevante la situazione che potrebbe presentarsi qualora a svolgere le stesse mansioni del dipendente illegittimamente licenziato ci sia un altro lavoratore. 

Ciò non toglie che in caso di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive il datore di lavoro possa esercitare lo jus variandi assegnando una sede di lavoro diversa al dipendente reintegrato. 

L’indennità sostitutiva della reintegrazione 

Come abbiamo detto nei paragrafi precedenti il lavoratore che non accetta la reintegrazione sul posto di lavoro, può provvedere a richiedere al datore di lavoro un’indennità sostitutiva, pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto. 

Si tratta di una facoltà meramente unilaterale, attribuita al lavoratore, che la esercita attraverso una dichiarazione unilaterale. 

Dopo che il lavoratore esprime la sua facoltà il rapporto di lavoro si estingue e il lavoratore non può più pretendere di essere reintegrato, anche nel caso di mancato pagamento di tutte e quindici le mensilità 

L’obbligo alla reintegrazione si estingue in capo al datore di lavoro quando quest’ultimo paga l’indennità sostitutiva della reintegrazione al lavoratore illegittimamente licenziato, e non solo con la semplice dichiarazione unilaterale del lavoratore. 

TFR e reintegrazione 

Spetta al lavoratore restituire il TFR percepito in fase di licenziamento, a seguito di una sentenza di accertamento della illegittimità del licenziamento. 

Qualora il lavoratore si dovesse rifiutare di restituire quanto dovuto, si ricorda che il datore di lavoro ha la possibilità di poter recuperare la somma spettante con il pignoramento che non potrà essere superiore ad un quinto dello stipendio.

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