Le clausole claims made sono disposizioni pattizie inserite nei contratti di assicurazione in deroga alla normativa di cui all’art. 1917 c.c., che prevede la copertura assicurativa per gli illeciti perpetrati in pendenza del contratto.
La norma ha carattere dispositivo, come si desume dall’art. 1932 c.c., che, nell’elencare le norme imperative, non rinvia all’art. 1917 c.c.

E’, dunque, invalsa la prassi, poi accolta anche dal legislatore, di inserire nei contratti di assicurazione le predette clausole, le quali possono assumere differenti caratteristiche:

  • clausole pure, che fanno dipendere la copertura assicurativa dalla richiesta del danneggiato, che deve pervenire all’assicurazione in pendenza del contratto;
  • clausole miste, l’illecito e la richiesta sono due eventi che devono verificarsi in pendenza del contratto;
  • finestre ultrattività e retroattività, che consentono di estendere gli effetti del contratto.

Tali clausole, come è stato evidenziato in dottrina, non sempre garantiscono la copertura assicurativa. Soprattutto per le miste, difficilmente i due eventi si verificheranno contestualmente.

Ma allora, l’assicurato rischia di pagare il premio assicurativo senza ricevere copertura assicurativa. Come può tutelarsi avverso a predette clausole? Scopriamolo insieme!

Cosa sono le clausole claims made?

Le clausole claims made sono disposizioni pattizie inserite nei contratti di assicurazione in deroga alla normativa di cui all’art. 1917 c.c., che prevede la copertura assicurativa per gli illeciti perpetrati in pendenza del contratto.
La norma ha carattere dispositivo, come si desume dall’art. 1932 c.c., che, nell’elencare le norme imperative, non rinvia all’art. 1917 c.c.

E’, dunque, invalsa la prassi, poi accolta anche dal legislatore, di inserire nei contratti di assicurazione le predette clausole, le quali possono assumere differenti caratteristiche.
Le clausole claims made pure presuppongono che la copertura assicurativa sia concessa ove la richiesta di pagamento pervenga all’impresa assicuratrice durante la pendenza del contratto.

Una peculiare variante è individuata dalle clausole impure o miste, caratterizzate per la previsione di una doppia condizione. Sia l’istanza, che l’illecito, infatti, devono realizzarsi in pendenza del contratto.


Talora, i contratti prevedono dei correttivi, introducendo delle finestre di ultrattività o retroattività, le quali estendono la copertura assicurativa per un certo termine, successivo o precedente al contratto.

Le clausole in questione, da un lato, assolvono ad una specifica esigenza dell’impresa assicuratrice, ossia escludere la risarcibilità dei c.d. danni di lunga latenza, rispetto ai quali la richiesta perviene trascorso un considerevole periodo di tempo dall’illecito.
Da altro canto, esse comportano un significativo squilibrio delle posizione contrattuali.

Tali previsioni spostano l’alea contrattuale dall’illecito alla richiesta, facendo insorgere il rischio per l’assicurato di non ottenere la prestazione, per cui paga il premio assicurativo.

L’indennizzo, infatti, non è sempre garantito, proprio in quanto subordinato a due condizioni, le quali difficilmente si realizzeranno entrambe entro la scadenza.

Il dibattito giurisprudenziale, come è desumibile, è sorto sulla validità delle clausole claims made, alla luce degli effetti che producono.

Le clausole claims made sono nulle?

Una delle questioni più spinosa, dunque, concerne la validità delle clausole claims made. Lo strumento di tutela per l’assicurato è, infatti, individuato nella nullità.

L’assicurato più infatti chiedere di far valere la nullità. Ma di cosa?

La questione è stata oggetto di ampio dibattito giurisprudenziale. Le questioni poste al vaglio della giurisprudenza sono sostanzialmente due.

In primo luogo, l’interprete si è interrogato circa le cause di invalidità. Pur volendo ritenere che l’atto sia affetto da nullità negoziale, quali sono le ragioni che comportano predetto risultato?

In genere, si distinguono tre tipologie di nullità, come disciplinata dall’art. 1418 c.c.:

  • nullità virtuale, che segue alla violazione di norma imperativa;
  • nullità strutturale per assenza di un elemento essenziale o la sua illiceità;
  • e nullità testuale, quando il legislatore commina la nullità per espressa previsione di legge, come conseguente alla violazione di una disposizione normativa.

A quale di queste categorie appartiene la nullità delle claims made? Invero, la risposta non è semplice. Infatti non è stato facilmente qualificabile in una delle predette categorie.

Tuttavia, ad oggi, la questione sembra esser risolta dalla giurisprudenza, la quale collega la nullità ad un vizio attinente alla causa del contratto.

Una seconda questione, invece, attiene a se il vizio comporta la nullità integrale del contratto, o della singola clausola. Anche sul punto tendenzialmente, si accoglie la tesi per la quale sia nulla la singola clausola, mentre si fa salvo il contratto di assicurazione.

Ma vediamo quali sono state le tesi elaborate dalla giurisprudenza.

Clausole claims made e meritevolezza

Un primo orientamento giurisprudenziale ha sostenuto la nullità delle clausole claims made in virtù del principio di meritevolezza, richiamando la disposizione di cui all’art. 1322 c.c..

Le clausole, invero, sono ritenute immeritevoli sulla scorta di tre argomentazioni.


In primo luogo, sono causa di irrazionalità economica del contratto, in quanto l’assicurato provvede al pagamento del premio assicurativo, senza che sia erogata la controprestazione.


Inoltre, le clausole generano uno stato di arbitraria soggezione dell’assicurato al danneggiato, al quale è rimessa l’integrazione di una delle due condizioni, ossia la presentazione dell’istanza all’assicurazione.


Infine, si è evidenziato che esse inducono a comportamenti antisociali. L’assicurato, in contrasto con il principio di solidarietà, non procederà spontaneamente a risarcire il danno, in mancanza della richiesta del danneggiato, che garantisca la copertura assicurativa. L’orientamento, qui esaminato, evoca un filone dottrinale che riconosce attuale rilievo alla disposizione di cui all’art. 1322 c.c., ancora vigente nell’ordinamento, e al principio di meritevolezza.


In particolare, la tesi accolta offre un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, alla luce del principio di solidarietà e del relativo corollario del canone della buona fede, in virtù della quale il contratto contrario a buona fede è immeritevole ai sensi dell’art. 1322 c.c..

Inadeguatezza causale: la soluzione delle Sezioni Unite

La Corte di Cassazione, invero, è intervenuta sulla validità delle clausole claims made, adottando una soluzione ben distinta da quella precedentemente accolta dalla giurisprudenza a Sezioni semplici.

La Suprema Corte, infatti, ha escluso l’applicazione dell’art. 1322 c.c., constatando che esso trova applicazione ai soli contratti atipici. Le clausole claims made, al contrario, hanno trovato espressa positivizzazione nella disciplina delle assicurazioni dei professionisti.


L’interprete, in questa sede, ha, invece, argomentato con riferimento alla teoria della causa in concreto, introducendo il concetto di adeguatezza causale.


Il codice delle assicurazioni, si sostiene, afferma l’esigenza di garantire una corrispondenza del contratto all’interesse dell’assicurato.


Per contro, le clausole claims made inducono al pagamento del premio, senza, talvolta, ottenere la controprestazione. La corte conclude che il contratto è inadeguato a perseguire la causa in concreto, non rispondendo all’interesse dell’assicurato ad ottenere copertura dal rischio della responsabilità da illecito civile.

Quali critiche alle Sezioni unite?

Il giudizio di adeguatezza causale ha, tuttavia, sollevato rilevanti obiezioni in dottrina.

In primo luogo, consente al giudice di effettuare una valutazione dell’equilibrio contrattuale. Tuttavia, in particolare si contesta lo stesso giudizio causale operato.

La Corte sembra effettuare un raffronto con una causa presuntivamente ritenuta adeguata, indipendente dal contenuto intrinseco del contratto.


A contrario, la causa è sintesi degli interessi di parte come oggettivizzatesi nell’atto negoziale, mediante il complesso delle clausole, comprese, dunque, le claims made.

Essa, quindi, è accertata anche alla luce dell’interesse dell’assicuratore.Tale interpretazione, invece, sembra valorizzare la sola posizione dell’assicurato, con il conseguente rischio di attribuire rilevo, più che agli interessi, ai motivi soggettivi di parte, giuridicamente irrilevanti.

La dottrina ha, altresì, obiettato che il criterio dell’adeguatezza causale tende a celare un giudizio di buona fede cogente, che incide sul regime di validità dell’atto. La deroga apportata all’art. 1917, infatti, pur se ammissibile, è, in tal contesto, abusiva, in quanto eccede i limiti di derogabili imposti dal canone della buona fede.

Parallelo con le clausole vessatorie

In questa prospettiva, invero, è stato ulteriormente obiettato, è palese un parallelo con le clausole vessatorie di matrice consumeristica e le claims made, pur se il contratto non è concluso da un consumatore.
Tale rapporto tra le due categorie di disposizioni pattizie si evince da ulteriori due argomenti.

Un intervento giurisprudenziale, successivo alle Sezioni Unite, espressamente qualifica le clausole claims made come vessatorie, pur motivando la nullità delle stesse anche sull’illiceità della causa per contrasto alla norma imperativa di cui all’art. 2965 c.c., sul divieto di patti che limitano, mediante termine di decadenza, l’esercizio di un diritto.

Regime della nullità

Altrettanto significativo è il regime dell’invalidità delle clausole claims made, che presenta elementi di continuità con la disciplina consumeristica.

In questo contesto, il vizio accertato, attenendo ad un elemento essenziale del contratto, quale è la causa, dovrebbe comportare una nullità totale del negozio.
Al contrario, la giurisprudenza propende per la nullità parziale della clausola, al fine di non pregiudicare ulteriormente l’interesse dell’assicurato, a seguito della caducazione dell’intero contratto.

Tuttavia, tale assunto ha comportato, come necessaria conseguenza, l’esigenza di intervenire in via conformativa sul contratto, per colmare la lacuna prodotta e consentire la perdurante operatività del stesso.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha accolto un orientamento, in virtù del quale si riconosce l’esistenza un potere di conformazione del contratto in sede giudiziaria.

Il giudice è tenuto a ripristinare l’equilibrio negoziale modificando il contenuto della clausola claims made.
Tenendo conto degli elementi del contratto, così da salvaguardare la causa in funzione della volontà delle parti, seleziona tra tipologie di clausole, contemplate dal legislatore, quella maggiormente idonea alla realizzazione di un equilibrato assetto di interessi.

In via esemplificativa, il giudice ha la facoltà di introdurre nel regolamento delle clausole claims made finestre di ultrattività o retroattività, che consentono superare l’obiezione di inadeguatezza causale delle disposizione pattizia.
In questo modo, è, altresì, preservata l’originaria volontà delle parti di subordinare la prestazione assicurativa alla rischio contraddistinto dal duplice elemento delle verificazione dell’illecito e della richiesta risarcitoria in pendenza del contratto.

Cosa si critica al regime della nullità delle Claims made?

L’orientamento in esame ha suscitato rilevanti obiezioni in dottrina.

In primo luogo, non si individuano parametri specifici e adeguatamente determinati che possano orientare il giudice nell’operazione ermeneutica descritta.

In secondo luogo, lo stesso intervento conformativo del giudice è incompatibile con il principio dell’autonomia negoziale delle parti, nella determinazione del programma contrattuale.
Inoltre, l’intervento giudiziale compromette la cogenza del contratto, il quale impone sulle parti un vincolo, nel senso che esse non possono più sottrarsi ai suoi effetti, in ossequio al brocardo pacta sunt servanda.

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