Dopo la sentenza che dichiara di fallimento della propria attività, l’imprenditore avrà una serie di conseguenze sul piano personale e sul piano economico per risarcire i creditori e anche sul piano processuale. Il fallimento di un’impresa è disciplinato minuziosamente dalla Legge Fallimentare (Regio Decreto n. 267 del 1942).

La Legge Fallimentare prevede anche le procedure di ristrutturazione dei debiti ed il concordato preventivo, ovvero procedura concorsuale attraverso la quale l’imprenditore ricerca un accordo con i suoi creditori per non essere dichiarato fallito e cercare di superare la crisi in cui versa l’impresa. 

La procedura di fallimento è riservata ad imprenditori medio piccoli, per imprese più grandi sono previste altre forme di regolazione della crisi di impresa come la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria. Il processo volto alla dichiarazione di fallimento si apre con ricorso davanti al tribunale competente, ovvero dove ha sede principale l’impresa.

Il fallimento

Il fallimento è una procedura concorsuale che regola la crisi dell’impresa ed è disciplinato dalla Legge Fallimentare con i successivi aggiornamenti. Lo scopo principale è la soddisfazione (almeno parziale) dei creditori e quando possibile, la salvaguardia di almeno una parte delle attività interessate. Parlare di fallimento è poco corretto dopo la riforma della Legge Fallimentare, entrata in vigore a partire dal primo settembre 2021, in cui ha modificato la terminologia, introducendo l’espressione liquidazione giudiziale.

L’art. 5 della Legge Fallimentare dispone che:

“L’imprenditore che si trova in stato d’insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato d’insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

La normativa prevede la presenza di presupposti soggettivi e oggettivi per la dichiarazione di fallimento. Il presupposto soggettivo delimita l’ambito applicativo. In particolare, il fallimento riguarda sia le imprese individuali sia le imprese societarie, tuttavia sono esclusi dal fallimento:

  • enti pubblici;
  • imprese agricole;
  • piccole imprese: indicate dall’art. 1 della Legge Fallimentare, e sono quelle che:
    • non hanno realizzato ricavi annui superiori a duecentomila euro;
    • hanno investito nell’azienda una somma inferiore a trecentomila euro;
    • hanno avuto un ammontare di debiti non superiore a cinquecentomila euro.

In sintesi, tutte le imprese commerciali che non rientrano in questi parametri potrebbero dichiarare fallimento, se rispettano anche il presupposto oggettivo. La dichiarazione di fallimento non ha luogo, se dagli atti dell’istruttoria prefallimentare risulta un ammontare dei debiti scaduti o non pagati inferiore a trentamila euro.

Sono soggetti alla procedura fallimentare gli imprenditori commerciali, fatti salvi gli enti pubblici. Gli imprenditori commerciali sono individuati all’art. 2195 c.c. e sono i soggetti che si occupano della produzione di beni e servizi, dell’intermediazione nello scambio di beni, del trasporto, di attività bancaria o assicurativa e di attività ausiliarie a queste.

Il presupposto oggettivo delimita ulteriormente l’ambito applicativo del fallimento. In particolare, non è sufficiente che siano presenti uno o più debiti scoperti. Il fallimento si può dichiarare solo se l’impresa si trova in uno stato di insolvenza, ovvero in una condizione di difficoltà economica tale da rendere impossibile il pagamento di qualunque debito. Si tratta di situazioni economiche particolarmente gravi.

Inoltre, la procedura fallimentare si rivolge a imprenditori medio-piccoli, in quanto per le imprese più grandi sono previsti altri percorsi, come quello della liquidazione coatta amministrativa o dell’amministrazione straordinaria.

La legge afferma che il fallimento è dichiarato su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero. È il tribunale del luogo dove ha sede principale l’impresa a dichiarare il fallimento, secondo quanto disposto dall’art. 9 della Legge Fallimentare.

Imprenditore fallito conseguenze patrimoniali: lo spossessamento

Il fallimento ha o potrebbe avere conseguenze patrimoniali e personali sull’imprenditore e conseguenze processuali. Possono esserci conseguenze anche sul piano penale con la contestazione di reati come la bancarotta o il ricorso abusivo al credito.

A seguito del fallimento, il tribunale priva l’imprenditore dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni e nomina un curatore fallimentare che ha il compito di liquidare il patrimonio del fallito provvedendo a ripagare tutti i creditori secondo la par condico creditorum, secondo quanto disposto dall’art. 42 della Legge Fallimentare.

Innanzitutto si verifica lo spossessamento dell’imprenditore dai suoi beni, compresi quelli acquisiti durante la procedura fallimentare. Sono esclusi soltanto beni strettamente personali, i beni necessari al suo mantenimento e della sua famiglia e le cose impignorabili per legge.
Anche gli atti dell’imprenditore successivi al fallimento non hanno efficacia rispetto ai creditori.

Tale situazione decorre dalla data della pubblicazione della sentenza di fallimento e lo priva a tutti gli effetti dei diritti sul proprio patrimonio.

Secondo quanto prevede l’art. 46 della Legge Fallimentare NON sono compresi nel fallimento:

  • beni e i diritti di natura strettamente personale;
  • gli assegni di carattere alimentare come gli stipendi, le pensioni e i salari che l’imprenditore guadagna con la sua attività, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia;
  • frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli e del fondo patrimoniale;
  • le cose che non possono essere pignorate, come disposto dalla Legge.

Lo spossessamento provoca anche un’ulteriore conseguenza. Dopo la sentenza di fallimento gli atti patrimoniali che firmerei dopo saranno considerati nulli, pensiamo a cessioni, donazioni, alienazioni ecc…

Il curatore fallimentare assume l’amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la vigilanza del giudice delegato. Il curatore deve compilare l’elenco dei creditori e gestire le comunicazioni con loro. Entro 60 giorni deve presentare al giudice delegato una relazione particolareggiata sul fallimento e sulle responsabilità coinvolte. Successivamente dovrà riepilogare le attività svolte ogni sei mesi e inviarne una copia anche al comitato dei creditori con gli estratti conto. Il curatore deve predisporre un piano di liquidazione da sottoporre all’approvazione del comitato dei creditori e procedere con le vendite e realizzazioni dell’attivo con l’obiettivo di soddisfare i creditori.

Imprenditore fallito: le conseguenze personali

Oltre alle conseguenze patrimoniali per l’imprenditore fallito non mancano anche conseguenze personali. In quanto a seguito della sentenza di fallimento, esso viene privato a tutti gli effetti del segreto epistolare. L’imprenditore ha infatti l’obbligo di:

  • consegnare al curatore fallimentare la propria corrispondenza, lavorativa e non strettamente personale, sia cartacea che elettronica, mostrando tutto ciò che attiene ai rapporti societari, con i creditori e con il fallimento (mantenendo comunque il diritto alla corrispondenza e alla sua ricezione);
  • comunicare al curatore fallimentare eventuali cambi di residenza o domicilio (articolo 49 comma 1 della Legge Fallimentare);
  • consegnare al curatore tutte le scritture contabili, gli elenchi dei creditori e i bilanci entro 3 giorni dalla dichiarazione di fallimento.

Conseguenze processuali

La dichiarazione di fallimento ha effetti anche sul piano processuale. Un imprenditore che ha dichiarato il fallimento non può stare in giudizio, in nessuno dei procedimenti che riguardano per via diretta o indiretta il fallimento.

Al suo posto, secondo il volere del giudice, è legittimato il curatore fallimentare, il quale potrebbe chiedere di considerare nulli gli atti di disposizione del patrimonio precedenti alla dichiarazione di fallimento qualora compromettessero i creditori.

L’articolo 43 della Legge Fallimentare prevede che;

“il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico se l’intervento è previsto dalla legge.”

Alternative per la crisi d’impresa

Un’impresa fallisce a causa di una serie di decisioni sbagliate circa la gestione della liquidità. Può accadere più facilmente se il tuo capitale è basso e devi ricorrere soprattutto su finanziamenti esterni. Per evitare il fallimento di un’impresa occorre in primo luogo saper gestire il flusso di cassa.

La normativa prevede delle alternative alla procedura fallimentare tradizionale. In caso di difficoltà non ancora conclamata, è concesso all’impresa un accordo con i creditori, al fine di realizzare una risoluzione stragiudiziale della crisi. La Legge fallimentare prevede, in caso di difficoltà già conclamata, il ricorso al concordato preventivo o all’accordo di ristrutturazione dei debiti. Infine l’art. 67 della Legge Fallimentare prevede la possibilità di un piano di risanamento alternativo alla procedura fallimentare ordinaria.

L’Imprenditore fallito può aprire una nuova attività? 

Si, è possibile. Può iniziare una nuova attività imprenditoriale senza utilizzare i beni che servono a liquidare i debiti dell’impresa fallita.Inoltre, l’attività non deve essere collegata con quella fallita.

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